In carcere il ‘docufilm’ sulla razzìa del ghetto di Roma

«PERCHÈ Hitler ce l’aveva così tanto con gli ebrei?», «Perché lo Stato e la Chiesa non li hanno protetti, visto che erano cittadini italiani?», ma soprattutto «Perché la storia si ripete?». In queste domande è racchiusa la partecipazione con cui ieri, in carcere, una trentina di detenuti ha commentato il ‘docufilm’ di Ruggero Gabbai “La razzia. Roma, 16 ottobre 1943”, proiettato nella casa circondariale grazie all’iniziativa del Meis. Una vera anteprima, dal momento che la pellicola andrà in onda su Rai Uno domenica, per il Giorno della Memoria. «Far vedere questo lavoro – ha introdotto Simonetta Della Seta, direttore del Meis – significa mostrare che cosa succede a una persona quando viene privata della sua libertà, della sua dignità». Al termine della proiezione, i carcerati, che si erano iscritti liberamente all’evento ed erano in larga parte musulmani, si sono rivolti al registai, allo storico Marcello Pezzetti, autore del film insieme a Liliana Picciotto, e a Della Seta per cercare di comprendere la mostruosità degli eventi che ‘La razzia’ documenta. Una raffica di domande che hanno fatto emergere quanto i contenuti della Memoria parlino anche a persone solo apparentemente distanti dal tema.


«Leggi razziali, espulsi quattro docenti»

IL CONVEGNO – All’Università tavola rotonda sul controverso ruolo dei giuristi. Anna Quarzi traccia il profilo degli insegnanti allontanati nel 1938

«LA LEGGE, strumento di uguaglianza, divenne strumento di oppressione». Baldassarre Pastore ha introdotto così il convegno, organizzato da Unife in collaborazione con l’Istituto di Storia Contemporanea e il Meis, sul ruolo, fatto di molte ombre e poche luci, tra i giuristi e le leggi razziali. Occasione per ricordare, come ha fatto Anna Quarzi, i docenti dell’ateneo che nel 1938, a seguito della promulgazione delle leggi razziali, dovettero lasciare l’insegnamento e la città. «Due erano in organico a Giurisprudenza – spiega la Quarzi –: Angelo Piero Sereni, incaricato di Diritto Internazionale, e Vittorio Neppi, docente di Diritto Civile». Per nessuno dei due valse l’iscrizione al Partito Fascista, né la stima degli organi accademici. Stessa sorte toccò a Aldo Luisada e Cesare Tedeschi, «docente il primo di Patologia speciale medica, il secondo di Anatomia e istologia patologica. Luisada, nel 1939, partì per gli Stati Uniti, andando a ingrossare le fila dei fuoriusciti intellettuali». Ma la ricerca non è completa, emergono altri due casi: «Ubaldo Sammartino, ordinario di Farmacologia, era sposato con una donna ebrea. Non viene sospeso, ma di fronte alla continua richiesta di documentare la propria posizione, nell’agosto del ’39 chiede il passaporto per andare all’estero. Non farà più ritorno. Emilio Beccari, anche lui docente di Farmacologia, aveva il padre cattolico e la mamma ebrea. Dopo il ’38 continua a insegnare, ma anche a lui vengono fatte pressanti richieste di chiarire la sua posizione in relazione alla razza. Fino a che il suo nome non compare più fra quelli del corpo accademico».

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