Il Codice di papà da Vinci
Brunella Torresin
Affiora nei dipinti del Mantegna a Mantova, di Cosmè Tura a Ferrara, di Vittore Carpaccio a Venezia; si manifesta nell’editoria e nella filosofia; si diffonde nella danza, nella musica, negli apparati scenici che danno man mano forma all’idea del teatro. Il contributo della cultura e della tradizione ebraica alla civiltà rinascimentale italiana tocca ogni arte e ogni commercio, e a esso è dedicata la mostra Il Rinascimento parla ebraico, dal 12 aprile al 15 settembre al Meis di Ferrara, il museo dell’ebraismo italiano e della Shoah. Ma vi è un episodio tra tutti esemplare che il nuovo segmento espositivo del museo, successivo alla narrazione dei primi mille anni di storia degli ebrei in Italia, riporta all’attenzione: è il contratto tra due maestri di ballo, l’ebreo Joseph di Moysè da Pesaro e il cristiano Francesco di Domenico da Venezia, per l’istituzione di una società di danza, musica e canto nella Firenze del 1467. Società “miste” non erano infrequenti nelle imprese d’arte, nell’editoria e nel commercio, ci ricorda Giulio Busi, curatore della mostra con Silvana Greco, ma questa scuola di ballo ebraico-cristiana compendia caratteri particolari, non ultimo la firma del notaio che stipulò l’atto: ser Piero da Vinci, il padre di Leonardo.
Piero da Vinci, nato nel 1427, proveniva da una famiglia di notai; aveva lo studio nel Popolo di Santo Stefano della Badia Fiorentina, di fronte al palazzo del Podestà, oggi museo del Bargello. I suoi protocolli, rilegati, sono conservati all’Archivio di Stato di Firenze e in essi Alessandra Veronese ha rintracciato il documento esposto a Ferrara. Ma Piero da Vinci era anche un ricercato calligrafo e uomo di cultura. A tal punto che Giorgio Vasari, nella Vita del Pontormo, gli riconosce l’ideazione dei costumi per i figuranti dei carri allegorici del Carnevale fiorentino del 1513. Cosa che non può essere, poiché Leonardo annota la morte del padre nel 1504, ma l’attribuzione è certamente significativa. Leonardo, nato nel 1452, era il primogenito, illegittimo. Piero si sposò quattro volte, ed ebbe altri 12 figli. Intuì il talento di Leonardo e da uomo concreto certamente anche il profitto; mostrò i disegni del figlio ad Andrea del Verrocchio, del quale era amico, “molto amico suo”, assicura Vasari. Verrocchio prese il ragazzo a bottega. Potrebbe averlo fatto, è suggestivo pensarlo, nello stesso anno in cui Piero da Vinci stipula il contratto tra Joseph di Moysè e Francesco di Domenico. Joseph, o Giuseppe, era figlio e fratello d’arte: il fratello Guglielmo Ebreo da Pesaro, coreografo di corte anche a Milano, è l’autore del primo trattato sull’arte del ballo (1463). Guglielmo si converte, Giuseppe resterà fedele alla sua religione: «Socio alla pari, ebreo convinto, maestro di danza, imprenditore ambizioso», per Giulio Busi questo «è il Rinascimento plurale di Giuseppe da Pesaro». È il Rinascimento fiorentino in cui la comunità ebraica e la maggioranza cristiana convivono, collaborano e riconoscono nelle arti la loro casa comune. Il nome di ser Piero da Vinci ricorre una seconda volta nella mostra: nel 1490 è lui a stipulare l’atto con il quale il banchiere fiorentino Eliyyah da Vigevano corrisponde alla figlia una dote di 450 fiorini. Nella città di Lorenzo il Magnifico, interlocutore di una comunità ebraica fiorente e rispettata, Piero è il notaio di fiducia degli ebrei più colti, più facoltosi, più vicini alla signoria medicea. Quanto al contratto che egli stesso aveva redatto, dal primo giugno 1467 per un anno impegnò un socio ebreo e un socio cristiano a sostenere in parti uguali le spese e a ripartire i guadagni, e diede la possibilità a entrambi i maestri di insegnare danza, canto e musica ad allievi maschi e femmine, all’interno della scuola e in casa altrui, nella città di Firenze e altrove. Pari dignità, piena integrazione.