Vogelmann, biografia d’un padre

Ha parlato in un bookshop gremito di giovani, Daniel Vogelmann, ospite a Ferrara del Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah per il Giorno della Memoria.

Davanti agli studenti di un paio di licei cittadini ha sfogliato le pagine della sua “Piccola autobiografia di mio padre”, un “libro piccolo solo per il numero di pagine – come ha sottolineato il Presidente del MEIS, Dario Disegni –, ma straordinario. Perché aiuta a capire la tragedia della Shoah, a coglierne l’enormità attraverso le microstorie delle persone, delle famiglie, come ha scritto anche la senatrice Liliana Segre”.

E le parole con cui Disegni introduce Vogelmann si venano di emozione, quando ricorda il legame familiare che li unisce: “Tra le istantanee che ho davanti agli occhi, c’è quella che compare nella seconda pagina del libro di Daniel, con Annetta e Sissel, la moglie e la figlia di suo padre Schulim, entrambe uccise ad Auschwitz. Annetta era sorella di mio papà e per tanti anni la piccola e bellissima nipotina Sissel, che lo chiamava ‘il mio caro zietto’, era stata per lui una luce. Per tutta la mia infanzia e adolescenza, quella foto era stata nel salotto di casa mia. Ogni mattina mio padre, dopo aver recitato le preghiere, si fermava in raccoglimento davanti a quell’immagine e piangeva, senza dirci niente. Un po’ come Schulim che, per una sorta di rimozione, di pudore, non ha mai raccontato fino in fondo la sua storia e non ha lasciato nulla di scritto”.

“Il MEIS è un luogo fondamentale per ricordare – ha puntualizzato il Presidente –, cioè per trarre stimoli per un forte impegno civile. Il mondo di oggi presenta tantissimi rischi: fenomeni di fanatismo, intolleranza, antisemitismo, razzismo. E ieri abbiamo appreso di un senatore della Repubblica italiana che non è evidentemente degno di far parte del Parlamento in cui siede Liliana Segre. Un motivo in più per lottare per una società più giusta, libera e rispettosa dei diritti di tutti, come ci esorta a fare il libro di Vogelmann”.

“Per tutta la mia vita non ho accettato la morte violenta di sei milioni di persone – ha esordito il fondatore della Casa Editrice Giuntina –, soprattutto quella di una bambina come Sissel. E nemmeno mio padre ci riusciva. Non sopportava di vedere in televisione nemmeno scene di semplici treni deragliati, che in qualche modo associava ad Auschwitz. Ma non aveva voglia di parlare, un po’ per non turbarmi, un po’ perché preferiva pensare al futuro. Però il silenzio spesso fa più male delle parole. A farmi sospettare che ci fosse qualcosa che non andava fu quando la tv cominciò a fare certi nomi che lui ricordava. Poi, un giorno, davanti a una trasmissione sulla razzia del ghetto di Roma, la mamma gli disse di non guardarla. Non guardava nemmeno certi film e non leggeva certi libri. Si decise a leggere “Se questo è un uomo” giusto prima di morire”.

“Sono nato su un treno mentre la città bruciava”. È con queste parole che il libro di Vogelmann si apre, come spiega lui stesso: “È un’immagine molto ebraica, considerato che il popolo ebraico si è formato con la fuga dall’Egitto”. Un po’ come l’esistenza del padre Schulim, che dalla natia Polonia si trasferisce a Vienna, poi in Palestina, a Firenze, fino alla deportazione ad Auschwitz e al ritorno in Italia. “È un po’ la scaletta che mi aveva indicato lui e che ho seguito nel mio libretto. A Firenze, Schulim entra nella tipografia dell’editore ebreo polacco Olschki come compositore a mano e in soli sei anni ne diventa direttore. Questo atout, insieme alla sua conoscenza delle lingue, è ciò che lo salverà dalla morte nel lager”.

I ricordi del padre che Daniel condivide col giovane pubblico presente al MEIS scontornano la figura di “un uomo ottimista, buono, aggettivo che oggi ha un significato quasi indecente, di buonista”. Un marito e padre che le leggi razziali colsero alla sprovvista. “È un mito da sfatare che quelle leggi fossero all’acqua di rose. In certi aspetti sono state peggiori che in Germania”.

Molti a Firenze si nascosero nelle campagne, tra solidarietà e delazioni. Schulim riuscì a procurarsi dei documenti falsi, ma fu scoperto prima di aver varcato il confine. All’arresto seguì il carcere a San Vittore e poi l’inferno dei sei giorni di viaggio verso Auschwitz. Quindi le bastonate, i cani lupo, la selezione, l’addio ad Annetta e a Sissel, che furono subito mandate alle camere a gas.

“Vista la sua esperienza di tipografo, venne impiegato nel campo di Plaszow per stampare delle sterline false, con le quali il Reich intendeva mettere in crisi la Banca di Inghilterra. Lì scoprì che molti prigionieri erano andati a lavorare a Cracovia nella fabbrica di utensili per cucina di un certo Schindler e riuscì a intrufolarsi fra loro”. Quel ‘certo Schindler’ sarà la salvezza di Schulim, che verrà inserito dall’industriale tedesco nella lista degli ebrei da risparmiare necessari allo sforzo bellico.

“Tutto dipende dal destino, dalla fortuna. Questo ci ha insegnato la Shoah. Il nostro mondo è quello in cui un senatore di una Repubblica fondata sulla Resistenza può dire impunemente certe cose senza essere cacciato. Ma mio padre mi ha insegnato a dare fiducia agli altri, ad accoglierli con empatia. E per concludere, cosa posso dirvi, se non quello che faccio dire a lui alla fine del mio libretto? Semplicemente: “ho sempre amato la vita”. E questo dobbiamo fare anche noi”.

Daniela Modonesi

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