Vite spezzate, vite salvate: a Ferrara storie di bimbi nella Shoah
di Andrea Musacci
Giovani, spesso giovanissime vite sconvolte, inghiottite dalle tenebre del male, vissute dentro l’orrore. Esistenze a volte distrutte per sempre, altre, invece, salvate.
“Stelle senza un cielo. Bambini nella Shoah” è il nome dell’esposizione aperta al MEIS dall’11 dicembre fino al prossimo 1° marzo, un progetto didattico, pensato quindi soprattutto per le scuole, curato dallo Yad Vashem, l’Ente nazionale per la Memoria della Shoah di Gerusalemme, in collaborazione con il MEIS, l’Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna e il Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (CDEC). Storie di bambine e bambini raccontate attraverso le loro immagini, a volte le loro stesse testimonianze e il racconto storico, una narrazione inevitabilmente commovente fatta di spezzoni di vita quoditiana, segni di storie di famiglie, di un popolo. La mostra è stata inaugurata ufficialmente nel pomeriggio del 10 dicembre scorso, anticipata, la mattina stessa, da una conferenza. Raccogliamo qui alcune vicende di bambine e bambini, le prime due accennate durante la conferenza stessa da Liliana Picciotto del CDE, le altre presenti in mostra.
Dino (classe 1929) ed Esther Molho, di Magenta (MI), che nel ’44, insieme ai genitori, imprenditori, dovettero nascondersi per 13 mesi in una stanza segreta (ideata da loro stessi insieme ad alcuni dipendenti) dello stabilimento di famiglia che produceva minuterie. La stanza era all’interno del magazzino, nascosta alla vista da una pila di casse alte fino al soffitto. Un sistema simile a quello usato dagli amici di Anna Frank.
Massimo Foa, nato l’8 novembre 43, torinese: la madre Elena Recanati è una sopravvissuta al campo di Bergen Belsen, mentre il padre Guido è morto, forse in una marcia della morte: Massimo, prima della deportazione dei genitori, è affidato a Suor Giuseppina De Muro, che lo fa uscire dalla prigione dov’è rinchiusa la madre in mezzo alle lenzuola sporche e viene affidato a una povera vedova di Cuorgnè di nome Tilde (Clotilde) Roda Boggio.
Leone (1930), Mirella (1932) e Davide Pecar (1935): tre fratelli milanesi che, insieme alla madre Ghenia vengono arrestati nel ’43 e portati al carcere di San Vittore, poi deportati ad Auschwitz, dove muoiono.
Franco Cesana, nome di battaglia “Balilla”, figlio di Felice e Ada Basevi, nato il 20 settembre 1931 a Mantova. A 13 anni si arruola nella brigata Scarabelli della seconda divisione Modena Montagna. Partecipa a numerosi scontri con i tedeschi e in uno di questi resta ucciso a Gombola (Polinago-Modena) il 14 settembre 1944.
Yehudit Czengery e Leah Czengery, gemelle rumene, hanno 6 anni nel ’44 quando vengono deportate con la madre Rosi nel campo di Auschwitz Birkenau. Il dottor Mengele le definì “le bellissime gemelle”: furono portate direttamente nel laboratorio riservato ai suoi esperimenti. La madre riuscì di nascosto a procurar loro del cibo. Si salvarono.
Marta Winter, classe 1935, polacca: nel ’43 la madre la affida a un amico di famiglia fuori dal ghetto. Fu poi deportata anche lei in un campo di concentramento ma si salvò.
Stefan Cohn, tedesco, nato nel ‘29: nel giugno ‘43 è deportato con la madre Bertha a Birkenau. Questa viene uccisa, Stefan fatto lavorare nella fabbrica di mattoni. Si salva e nel ’45 realizza 79 disegni raffiguranti la vita nei campi.
Sissel Vogelmann, torinese, nata nel ‘35, torino: il padre Shulim dirigeva la Giuntina editrice. Lei e la madre vennero uccise subito all’arrivo ad Auschwitz nel ’44, dopo esser state deportate dalla Stazione di Milano.
Henryk Orlowski e Kazimierz Orlowski, fratelli polacchi, rispettivamente del ‘31 e del ‘33.
Regina Zimet, classe ’33, nata a Lipsia. Nel ’39 con la famiglia fugge dalla Germania verso Israele, ma in Libia sono arrestati, riportati in Italia nel campo di Ferramonti. Poi rilasciati, sono costretti a vivere in clandestinità. Ma si salvano, e nel ’45 raggiungono Israele.
Sorte simile per Meir Muhlbaum, 1930, tedesco, e la sua famiglia, che nel ’44 riuscirono ad arrivare a Tel Aviv.
Adriana Revere: nasce alla Spezia il 18 dicembre 1934; i genitori Emilia De Benedetti ed Enrico Revere vengono arrestati in Vezzano Ligure per appartenenza alla “razza ebraica” ; la piccola viene catturata insieme ai genitori e inviata con loro al Campo di concentramento di Fossoli. Il 22 febbraio 1944 la famiglia è deportata al Campo di Auschwitz; il padre, trasferito a Flossenburg, è ucciso otto mesi dopo l’arrivo; la piccola e la madre sono uccise il giorno stesso dell’arrivo ad Auschwitz, il 24 febbraio 1944.
Maud Stecklmacher, cecoslovacca, classe ‘29: viene raccontata la sua amicizia con Ruth Weiss, poi proseguita nel ghetto di Terezin. Ma Ruth fu deportata in Polonia e non fece ritorno. Maud andò poi a vivere in Israele.
Marcello Ravenna, nato il 14 ottobre 1929 a Ferrara: figlio di Letizia Rossi e Gino Ravenna, fratello minore di Franca ed Eugenio. Nel ‘38 inizia a frequentare la scuola ebraica di via Vignatagliata. Il 12 febbraio ‘44 con la famiglia è deportato nel campo di Fossoli, insieme ad altre 500 persone, poi deportate ad Auschwitz. Marcello fu tra quelli che non tornò più. Non si ebbero notizie precise sulla sua deportazione e morte.
“Tenere accese più luci possibili”: memoria, didattica e ricerca
La conferenza organizzata nella mattinata del 10 dicembre scorso al MEIS in occasione dell’inaugurazione della mostra sui bambini nella Shoah: la scuola di via Vignatagliata, la testimonianza di Cesare Finzi, i bimbi ferraresi vittime della Shoah nelle lapidi di via Mazzini, il Museo Yad Vashem a Gersualemme
La mattina del 10 dicembre al MEIS, dopo i saluti del Direttore del Museo Simonetta Della Seta, di Alessandro Criserà (Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna), Anna Quarzi (Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara) e Daniela Dana Tedeschi (vicepresidente Associazione “Figli della Shoah”), sono seguiti gli interventi di Liliana Picciotto (CDEC), Marcella Hannà Ravenna (Comunità ebraica di Ferrara), Rita Chiappini (collaboratrice dello Yad Vashem come contatto in Italia), e Cesare Finzi.
“La mostra – ha spiegato Della Seta – è dedicata a bambini che da un certo punto in poi non hanno più avuto un cielo, né luce: per questo, è importante anche oggi accendere più luci possibili. Vedere la Shoah attraverso gli occhi dei bambini che l’hanno vissuta, significa vederla con ancor più lucidità”. Dopo un omaggio a Piero Terracina, morto lo scorso 8 dicembre, uno degli ultimi sopravvissuti italiani ad Auschwitz, Della Seta ha ricordato anche i propri genitori, “anche loro ‘bimbi della Shoah’”. Dopo l’intervento di Criserà, che ha ricordato l’importanza della Legge regionale “Memoria del Novecento”, e l’intervento di Quarzi, ha preso la parola Tedeschi, la quale ha auspicato che la collaborazione tra l’associazione da lei rappresentata (e presieduta dalla Senatrice Liliana Segre) e il MEIS, ora iniziata, possa proseguire negli anni. “La Shoah – è stata la sua riflessione – ha negato tutti i diritti fondamentali dei bambini, compresi quella alla libertà, all’identità, all’educazione”. Ricordiamo che il 10 dicembre era l’anniversario dell’adozione della dichiarazione universale dei diritti umani da parte delle Nazioni Unite, avvenuta nel ’48.
“Nel fascismo e nel nazismo – sono invece parole di Picciotto – l’educazione era militarizzata, i bimbi venivano cresciuti come soldati obbedienti, non vi era più posto per l’educazione civile e al senso critico”. Nel ripercorrere i tragici passaggi della discriminazione e repressione antiebraica, la relatrice ha posto l’accento sulle conseguenze di tutto ciò per i più piccoli, in termini di “fame, freddo, spavento e terrore, promiscuità, fetore dei vagoni usati per la deportazione”.
Senza dimenticare la frequente separazione dai genitori, la vita clandestina, la falsificazione dei documenti d’identità, il dover dare nome e cognome inventati – non ebrei – per non essere riconosciuti ed evitare quindi l’arresto.
Sorte, questa, toccata anche a Eugenio Ravenna (1920-1977), uno dei cinque ebrei ferraresi sopravvissuti al campo di Auschwitz. La figlia Marcella ha analizzato come le leggi razziste iniziarono concretamente con l’espulsione dalle scuole di studenti e insegnanti ebrei, ricordando, per quanto riguarda la scuola di via Vignatagliata, alunni come Cesare Finzi, Corrado Israel De Benedetti, Giampaolo Minerbi, Donata Ravenna, Franco Schönheit, Maurizia Tedeschi e Gianfranco Rossi; tra i maestri, Giorgio Bassani, Matilde Bassani e Primo Lampronti.
“Da un lato, dalle testimonianze di alcuni studenti – ha spiegato – emerge tristezza, una sensibilità ferita nel sentirsi trattati come diversi, il senso di inferiorità; dall’altra, l’ammirazione per gli insegnanti, il poter stare insieme, i legami molto forti instauratisi, il poter svolgere attività coinvolgenti, come lo spettacolo teatrale diretto da Giorgio Bassani”. Ma dal ‘43 vi saranno gli arresti, le fughe, le deportazioni. La scuola verrà chiusa, Lampronti e i Bassani arrestati.
Ravenna ha ricordato uno per uno i bambini deportati nei campi di sterminio i cui nomi sono impressi sulle lapidi di via Mazzini: bambine e bambini che non hanno fatto ritorno: Marcella Bassani, Bruno Farber, Carlo Lampronti, Camelia Matatia, Roberto Matatia, Amelia Melli, Novella Melli, Marcello Ravenna, Roberto Ravenna, Vittorio Ravenna, Nello Rietti, Walter Rossi (studente alla scuola di via Vignatagliata, non indicato nella lapide perché non ferrarese), Adele Rothstein, Giorgio Rothstein, Wanda Rothstein, Cesarina Saralvo.
Dopo l’intervento di Chiappini, che ha spiegato il fondamentale ruolo informativo e didattico dello Yad Vashem di Gerusalemme, ha portato la sua testimonianza Cesare Finzi, scampato al campo di concentramento, la cui storia abbiamo raccontato nel numero del 13 settembre scorso e accennato – legato alla profumeria di famiglia (presente nella mostra “Ferrara ebraica” ancora visitabile al MEIS) – in quello del 22 novembre scorso.
Finzi nel suo racconto ha mostrato anche una foto della sua classe del ’36, quando aveva 6 anni, e una dell’autodenuncia, in quanto ebrei – ai tempi, obbligatoria – dei genitori: “hanno dovuto autodenunciare se stessi e i propri figli come ebrei, quindi come esseri inferiori”, ha spiegato.
Fra gli aneddoti, “il viso viola di rabbia di Giorgio Bassani quando – già escluso dal Tennis Club Marfisa in quanto ebreo – sentiva il rumore delle palline da tennis nel campo vicino”, o i documenti falsi che lui e i famigliari erano riusciti ad avere una volta fuggiti a Gabicce, nel ’43, dove il cognome era stato trasformato in “Franzi”. Traumi non da poco, per un 13enne, costretto a dover “rinnegare” il proprio nome, dunque la propria più profonda identità.
Il 16 gennaio Furio Colombo a Ferrara
Il 16 gennaio al MEIS è in programma un’intera giornata di incontri:
ore 10: “Dalle carte le vite. Gli archivi raccontano gli effetti delle leggi razziste del 1938”. Progetto nato dal Fondo Egeli della Compagnia di San Paolo, a cura della Fondazione 1563 per l’Arte e la Cultura.
Intervengono: Walter Barberis, Elisabetta Ballaira, Piero Gastaldo.
Ore 16: Inaugurazione della mostra “1938: L’umanità negata”. Lancio del progetto didattico con il MIUR sulle leggi razziali, la Shoah e l’antisemitismo.
Ore 18.30, Ridotto del Teatro Comunale: “20 anni dalla Legge della Memoria: riflessioni per il futuro”, con Furio Colombo, promotore della Legge, in collaborazione con Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara.