‘Quando la patria uccide’, da Ferrara a Merano con gli occhi dei sopravvissuti
di Cecilia Gallotta
“Il 5 settembre di ottant’anni fa, un bambino, che disgraziatamente sapeva leggere, prese il giornale per suo papà. E lesse un titolo che cambiò per sempre la sua vita. Improvvisamente, i bambini con cui solitamente giocava al parco Massari, non avrebbe più potuto vederli. Nessuno avrebbe più potuto giocare con lui. Immaginate cos’ha provato quel bambino. Che ero io”.
Le parole del ferrarese Cesare Finzi, e degli altri testimoni che hanno riempito la sala del Meis martedì pomeriggio, fanno improvvisamente uscire dai libri di storia la data del 5 settembre 1938, quella della promulgazione delle leggi “razziste più che razziali”, come le definisce la direttrice Simonetta Della Seta, introducendo le vivide pagine di Sabine Mayr, che assieme a Joachim Innerhofer ha scritto ‘Quando la patria uccide. Storie ritrovate di famiglie ebraiche in Alto Adige’.
Un libro pubblicato nel 2016 “ma forse non ancora noto abbastanza” secondo l’autrice, che ha racimolato attraverso un’attentissima consultazione degli archivi locali, nazionali e internazionali, “evidenze che però non erano contenute negli archivi storici”. Quelle fatte di racconti, di vite, intrecci familiari a cui hanno dato voce quindici testimonianze dirette. E di una terra, altoatesina, che pur facendo fatica a immaginarlo si collega a quella ferrarese, città che assieme a Verona ospitò le prime comunità di ebrei aschenaziti, nome che in ebraico significa ‘germanico’, e indicava la regione franco-tedesca del Reno.
Sulla copertina del libro, una foto in bianco e nero di un papà con due bambini. “Quella era mia madre”, indica Lydia Cevidalli, raccontando al pubblico di come una delle oltre venti ville di Merano svendute, confiscate, e mai restituite fu proprio quella del suo ‘Opapa’, del suo nonno. Una ‘prassi’ comune fra gli ‘ariani’ italiani e sudtirolesi, che sulle orme di Germania e Austria, approfittarono della condizione dei perseguitati, causando perdite immobiliari enormi. Tra gli ebrei meranesi ce n’erano circa milleduecento, tra imprenditori, negozianti, attori, avvocati e artisti, particolarmente attivi e impegnati socialmente. “Soprattutto tanti medici”, come Joseph Kahn, che curò Franz Kafka nel 1920, o Rafael Hausmann, grazie al quale si istituì il Sanatorio di Merano, che offriva la cura gratuita.
Ma la data di settembre, come ricorda Della Seta, “rimarca il colpo terribile, il colpo basso inferto a partire dai bambini”, che a pochi giorni dall’inizio della scuola, si trovarono improvvisamente esclusi, assieme ai loro insegnanti.
“Frequentai la scuola ebraica, e passai tutti gli anni con la promessa di andare in una scuola pubblica – racconta Finzi -. Finalmente entrai al Roiti. Volevo avere tanti amici e compagni. Dopo l’appello del preside, che fece fatica a trovare persino i nostri nomi, lontani da quelli sull’elenco, fummo relegati nei banchi più in fondo, lontani da tutti. La professoressa ci chiese come mai fossimo lì, pensando che volessimo copiare. ‘Forse perché siamo ebrei’, dissi. In quel momento nell’aula si scatenarono fischi, gridolini, risate e sguardi maligni. D’altra parte erano cinque anni che quei ragazzi leggevano sul giornale di quanto gli ebrei fossero considerati ‘parassiti’, e per loro, averne due esemplari lì, dev’essere stato senz’altro divertente. ‘Vabbè, tanto non possono trasmettere la malattia’, sentii dire dalla professoressa per chetare il brusio. Di professoresse donne all’epoca non ce n’erano tante, non era facile che si riuscissero a laureare, perciò doveva essere particolarmente in gamba. E allora, candidamente, azzardai: ‘Mi scusi, ma quale malattia?’ Ancora oggi, si fa fatica a pensare alla realtà della sua risposta. ‘Perché, voi ebrei non avete la coda?”.