Arti e storie di mille anni d’ebraismo in Italia
MARCO CONTINI, FERRARA
Habemus Meis. A misurarne il tempo di gestazione, e la fatica, è sembrato un parto plurigemellare. Ma benché la “creatura” debba ancora essere ultimata – i lavori di costruzione non termineranno prima di due anni – Ferrara ha finalmente il suo Museo nazionale dell’ebraismo: quasi vent’anni dopo il concepimento, in una serie di conciliaboli che ebbero come protagonisti Vittorio Sgarbi, Alain Elkann e Dario Franceschini; 14 anni dopo la legge con cui il Parlamento ne approvò l’istituzione; e sei anni dopo la prima, poco più che simbolica, inaugurazione. Quello svelato ieri nell’ex carcere di via Piangipane con l’inaugurazione della mostra “Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni” alla presenza del presidente della Repubblica Mattarella, è infatti un museo vero, fatto e (quasi) finito.
Di cui l’esposizione temporanea, che resterà aperta fino al prossimo mese di settembre, è in realtà la prima pietra del futuro allestimento permanente. Perché raccontare la storia della presenza ebraica in Italia – la più longeva tra tutte le minoranze religiose dell’Occidente, ancorché numericamente una delle più piccole – è forse la principale tra le “mission” del Meis. “I primi mille anni”, curata da Daniele Jalla, Anna Foa e Giancarlo Lacerenza, tratta il primo millennio. Il secondo, si spera, arriverà. Ma molto dipenderà dal feedback che questa esposizione, che Jalla ha definito come “una mostra di prefigurazione, quasi una prova generale del museo che sarà”, saprà suscitare. La storia di quel primo millennio, che ha come punto di partenza le prime migrazioni nella Magna Grecia e la deportazione di migliaia di gerosolimitani compiuta dall’imperatore Tito nel primo secolo d.C., e come approdo la fine del Medioevo, è nota solo a grandi linee.
E il pregio della mostra – in cui in perfetto stile biblico il testo scritto è quasi più importante dei manufatti esposti – è quello di svelarla nel suo complesso, a partire dal fatto che per molti secoli l’ebraismo fu quasi esclusivamente un fenomeno meridionale: Roma, certo, ma ancor più Napoli, Salerno, Capua, Trani, Taranto, Siracusa, Messina, Palermo, Cagliari… Tutte città dove oggi le comunità ebraiche sono praticamente estinte. Ferrara, che grazie ai due secoli di accoglienza accordata dagli Estensi ai profughi ebrei in fuga dall’Inquisizione spagnola e dalle persecuzioni dell’Europa centrale si è guadagnata a buon diritto il titolo di “capitale italiana dell’ebraismo”, arriverà molto più tardi, in pieno Rinascimento.
Ma saprà tener fede a quel retaggio anche nei secoli successivi, dopo la devoluzione della città allo Stato della Chiesa nel 1598, con personaggi come il medico e filosofo del Settecento Isacco Lampronti, o come quel Giorgio Bassani che attraverso i suoi romanzi è diventato il miglior ambasciatore dell’ebraismo italiano nel mondo (tanto che ancora oggi, a 55 anni dalla pubblicazione, è frequente imbattersi in turisti che chiedono di visitare il giardino dei Finzi-Contini, ignari del fatto che sia un luogo metafisico). Ora Ferrara chiude il cerchio. Con un luogo di aggregazione culturale che ha l’ambizione di essere insieme museo e centro studi, eredità diretta – ancorché spezzata per oltre quattro secoli – di quella che tra il XV e il XVI secolo divenne, per sua scelta, uno fra i luoghi più vivaci della cultura ebraica, italiana e non solo.