Amos Gitai a Ferrara

Mercoledì 18 aprile Ferrara ospita il regista israeliano Amos Gitai, che presenta in anteprima il suo nuovo progetto cinematografico: un film su Doña Gracia Nasi, la business woman che nel Rinascimento scelse Ferrara per tornare alla propria cultura madre: l’ebraismo.

L’iniziativa di invitare Gitai è del Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah – MEIS, in collaborazione con il Comune di Ferrara e con Arci Ferrara.

L’appuntamento è fissato alle 17 al MEISHOP (Via Piangipane 81, ingresso gratuito), mentre alle 21, al Cinema Boldini (Via Previati 18, ingresso 5 €), si terrà la proiezione del film Tsili (2014), che sarà introdotto dallo stesso autore. A conversare con lui, il Direttore del MEIS Simonetta Della Seta e lo scrittore Alain Elkann (è prevista una traduzione dall’inglese). Durante la sua permanenza a Ferrara, il cineasta farà inoltre dei sopralluoghi, in vista delle riprese su Doña Gracia Nasi.

Gitai, che da oltre quarant’anni indaga con la macchina da presa la complessità dell’identità ebraica e israeliana nelle sue radici umane, culturali, filosofiche ed economiche, arriva a Ferrara da Israele per illustrare i motivi che lo hanno spinto a puntare i riflettori sulla vita di Doña Gracia, uno straordinario personaggio femminile che, all’inizio del ’500, animò anche la vita ferrarese. Qui, grazie all’apertura dei Duchi d’Este, ebbe il coraggio di riavvicinarsi all’ebraismo, religione che la sua famiglia – di antico casato ebraico e proveniente dalla Spagna e poi dal Portogallo – aveva dovuto abbandonare dopo l’editto di espulsione degli ebrei, firmato da Isabella e Ferdinando di Castiglia nel 1492.

Nata probabilmente nel 1510 a Lisbona, Gracia Nasi fu tra le figure più formidabili del mondo sefardita, ed ebraico in generale, dell’epoca.

A seguito della conversione forzata, i Nasi mutarono il nome in De Luna e Gracia divenne Beatrice, anche se fu educata occultamente al giudaismo e si sentì sempre ebrea.

A 18 anni sposò Francisco Mendes, un ricco mercante che commerciava spezie nelle Indie Orientali, e da lui ebbe la figlia Ana. Prima di morire, nel 1535, Francisco dispose che l’amministrazione della sua fortuna fosse equamente divisa tra la moglie, della quale aveva evidentemente colto l’intelligenza e l’intraprendenza, e il fratello (e socio) Diogo, che viveva ad Anversa. E fu proprio lì che Beatrice si trasferì insieme ad Ana e alla sorella minore Brianda, dopo l’istituzione, nel 1536, di un’Inquisizione portoghese sul modello di quella spagnola.

La permanenza ad Anversa, allora principale centro finanziario d’Europa, non poteva tuttavia che essere temporanea, ricadendo la città sotto il dominio spagnolo e, dunque, all’interno della giurisdizione dell’Inquisizione. I legami tra i Mendes e i de Luna si rafforzarono nel 1539, quando Brianda sposò Diogo e dai due nacque una figlia. Alla morte di Diogo, nel 1543, Beatrice (Gracia) si vide affidare dal testamento del cognato la gestione di metà del suo patrimonio e questo portò a una frattura con Brianda.

Intanto, Beatrice riuscì a fronteggiare i tentativi di chi, infangando la memoria del suo defunto marito o chiedendo in sposa la piccola Ana, mirava alle sue enormi sostanze. E nel 1544, con l’aiuto del nipote Joseph, organizzò la fuga a Venezia, dove lei e i familiari mantennero una facciata cattolica per ragioni strategiche, considerato anche che gli ebrei, dal 1516, erano confinati in un ghetto affollato e insalubre.

Il governo imperiale si vendicò accusando le sorelle Mendes di apostasia e ponendo un embargo sulle loro proprietà e crediti ad Anversa, che però Joseph riuscì in buona parte a recuperare. Anche a Venezia, tuttavia, c’era chi voleva mettere le mani sulle loro ricchezze: non appena la disputa tra Brianda e Beatrice per il controllo dei beni si riaccese, fu portata davanti al tribunale veneziano, che stabilì che metà del patrimonio fosse controllato dal tesoriere pubblico di Venezia fino a quando la nipote di Beatrice non avesse compiuto diciotto anni.

La Mendes, però, si era già organizzata per spostare famiglia e capitali a Ferrara, dove il Duca d’Este Ercole II la accolse con onore nel 1549, ansioso di ospitarne le floride attività. Qui, per la prima volta, i Mendes poterono riprendere a vivere apertamente come ebrei e Beatrice ridiventò Doña Gracia Nasi, distinguendosi non solo per la sapiente gestione della propria azienda, ma soprattutto per il ruolo propulsivo delle attività letterarie e tipografiche tra gli ebrei della città, che divenne il fulcro della produzione editoriale marrana. L’opera più influente del periodo fu la Bibbia di Ferrara (1553), una traduzione in spagnolo volgare della Bibbia ebraica di Abraham Usque e Yom Tov ben Levi Athias. La versione destinata all’uso ebraico fu dedicata proprio a Doña Gracia, a riprova della sua autorevolezza. Così come lo fu l’opera epica in portoghese di Samuel Usque Consolazione per le tribolazioni di Israele, che in un lungo brano descrive gli sforzi economici e organizzativi di Gracia per aiutare i conversi in fuga dal Portogallo e il loro insediamento in Italia o nell’impero ottomano.

Ma l’atmosfera della controriforma stava ormai rendendo anche Ferrara un luogo sempre più ostile e nel 1552 Gracia Nasi partì per Costantinopoli, insieme alla figlia e a una consistente quota dei propri averi. Nella capitale ottomana, dove continuò a condurre gli affari di famiglia, Gracia viveva in grande stile ed era devotamente chiamata “La Senora”. Eppure non smise mai di impegnarsi profondamente nella vita ebraica e assunse, anzi, un ruolo di guida nel mondo sefardita, dispensando carità (si diceva che ogni giorno facesse posto alla sua tavola a un’ottantina di indigenti), aiutando i fuggiaschi dalla penisola iberica, dando sollievo agli ebrei prigionieri e in difficoltà, sostenendo rabbini, studiosi e ospedali in tutto l’impero, e fondando una yeshiva (collegio rabbinico) e diverse sinagoghe.

Tra le ultime vicende note di Gracia si segnala l’audace e lungimirante progetto promosso nel 1560 col nipote: la creazione di un insediamento ebraico autosufficiente sul sito dell’antica Tiberiade, in Terra Santa, come rifugio per i conversos giunti da Spagna e Portogallo. Pare che Joseph ottenne dal sultano le rovine di Tiberiade con sette villaggi circostanti e che nel 1566 il piano fu reso operativo, anche se una generazione dopo non era rimasta che una manciata di famiglie.

Quando Gracia morì, nel 1569, a venir meno fu una donna influente e rispettata, combattiva e mai rassegnata di fronte alle avversità, consapevole dei propri privilegi eppure intensamente devota, un’imprenditrice ante litteram abile e piena di risorse, leader della diaspora sefardita e generosa benefattrice delle imprese ebraiche, vera incarnazione della solidarietà appassionata tra gli esuli.

Un’altra donna ebrea è al centro del film Tsili, di cui Gitai presenterà la visione alle 21, al Cinema Boldini (versione originale, sottotitoli in italiano). Tsili è il nome della giovane che, negli anni Quaranta del secolo scorso, si nasconde in un bosco alla periferia di Czernovicz, dopo che i suoi parenti sono stati deportati nei campi di concentramento. Con l’istinto di un animale, si costruisce un nido in piena zona di combattimento e sopravvive. Poi arriva Marek, che scopre il suo nascondiglio. Si rivolge a lei in yiddish e, quando capisce che anche lei è ebrea, si trasferisce nel rifugio di Tsili. Un giorno Marek va al villaggio in cerca di cibo, ma non torna più. All’improvviso, senza alcun preavviso, la guerra finisce e la ragazza lascia la sua tana. Incontra i sopravvissuti dei campi e insieme si dirigono verso una barca, che li porterà in un’altra terra.

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