“Ai miei nipoti ideali dico: lottate contro l’indifferenza”

Un incontro atteso, emozionante, necessario. È quello che si è tenuto questa mattina al Teatro Nuovo di Ferrara tra la senatrice Liliana Segre e oltre settecento studenti di ventidue scuole medie e superiori della città e della provincia, in apertura delle iniziative per il Giorno della Memoria.
A organizzarlo, il Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah, con il supporto dell’Istituto di Storia Contemporanea.

Dopo i saluti delle autorità – il Prefetto di Ferrara, Michele Campanaro, il Sindaco Tiziano Tagliani, Dario Disegni e Simonetta Della Seta, rispettivamente Presidente e Direttore del MEIS, Giovanni Desco, Dirigente dell’Ufficio Scolastico Territoriale, e Anna Quarzi, Presidente di ISCO – la parola è passata alla Segre, che un anno fa, nell’ottantesimo anniversario delle leggi razziali, è stata nominata senatrice a vita dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
75190 è il numero che le fu tatuato sul braccio ad Auschwitz, dove venne deportata a tredici anni, insieme al padre. Pagine dolorose che, negli ultimi trent’anni, Liliana ha raccontato a quasi trecentomila ragazzi: “E di questo voglio ringraziare le scuole e gli insegnanti che hanno sentito il proprio lavoro come una missione, preparando i giovani che anno dopo anno diventano grandi, fanno delle domande e delle scelte. A loro, miei nipoti ideali, dico di ascoltarmi come si ascolta una nonna, senza pensare a me come a una testimone, una sopravvissuta”.

E questa nonna ha ripercorso la sua infanzia e adolescenza, da quando era “una bambina qualunque, felice, viziata, in una casa dove mi amavano moltissimo, in una famiglia ebraica italiana da 500 anni” fino all’espulsione dalla scuola pubblica, senza un perché. “Me lo dissero un giorno a tavola e non capivo che cosa potevo aver combinato per meritare una simile punizione. Poi ho scoperto che la mia unica colpa era quella di essere nata ebrea. Le cose cominciarono a cambiare: a casa venivano spesso i poliziotti a controllarci i documenti, cambiai scuola e iniziai a stare zitta. In quell’ambiente amoroso che era la mia casa, improvvisamente diventata triste, il mio ruolo si era ingigantito, cercavo di rallegrare gli altri, ballavo, cantavo. E intanto i parenti più avveduti venivano a salutarci prima di partire, dopo aver messo in salvo anche i servizi di bicchieri”.

Allo scoppio della guerra, con le prime bombe, il trasferimento in Brianza, dove la Segre era l’unica ragazzina a non andare a scuola. “Avevo imparato a tenere per me la verità e dicevo che dovevo curare mio nonno. In parte era vero, perché aveva il morbo di Parkinson ed era stato diseredato dalla società. Gli leggevo il giornale, gli tagliavo le unghie, gli facevo da mangiare, io ero per lui e lui per me. Mai avrei pensato che l’anno dopo, con la nonna, sarebbe stato deportato, gasato e bruciato”.

Nell’estate del ‘43, dopo l’illusoria caduta del fascismo, inizia la caccia agli ebrei: “I giusti che scelsero di aiutarci, rischiando la vita, furono pochi, anche se dopo la guerra tutti dicevano di averlo fatto. Scegliere è una cosa difficile, è ciò che distingue dall’indifferenza, dal seguire come una pecora un pastore che non sempre è un buon pastore. Noi trovammo due famiglie che vennero a prendermi e mi nascosero. Ero disperata di lasciare la mia casa. Non fui gentile né grata, con loro e mi comportavo come una pensionante scocciata”.

Quando il padre di Liliana finalmente ottiene, a caro prezzo, dalla Questura di Como un permesso per lasciare a casa i genitori, sotto la custodia di due vicini cattolici, lui e la figlia scappano attraverso le montagne dietro Varese, diretti in Svizzera, “accompagnati da quei delinquenti spaventosi dei passatori. Il loro mercato umano mi ha ricordato gli scafisti di oggi, senza nessuno scrupolo né presa di coscienza”.

“Mi sentivo felice mano nella mano di mio papà, sicura che stessimo andando verso la terra della libertà. Invece fummo portati al comando di Arzo, dove un ufficiale ci guardò con disprezzo, ci disse che eravamo persone infime e che in Italia non saremmo stati condannati. Ci fece riportare dalle sentinelle armate sul confine e lì fummo arrestati. Così a tredici anni mi ritrovai in carcere, buttata in una cella e separata da mio padre”.

Poi la prigionia a Como e a Milano, a San Vittore: “Proprio nella mia zona, in centro, nella piazza dove ero sempre andata in bicicletta. Cella 202 del quinto raggio, l’ultima casina che condivisi con mio padre. Lui veniva interrogato dai nazisti, in modo feroce, due, tre volte al giorno. Quando tornava, ci abbracciavamo, restavamo in silenzio. Allora non ero più sua figlia, ma sua sorella, sua madre. Non pensate che i genitori siano per forza persone forti, alle quali potersi appoggiare sempre. A volte può esserci un padre fragile, tenerissimo e perdente come era il mio. Allora un abbraccio in più, dire “io sono qui se hai bisogno” conta molto. Dobbiamo aiutare chi è più debole di noi e non c’è nessuno come gli adolescenti che abbia i nervi pronti, la forza e l’intelligenza per farlo”.

Un pomeriggio, in cella entra un tedesco e legge un elenco di oltre seicento nomi, che il giorno dopo sarebbero partiti ‘per ignota destinazione’. “Era impossibile guardarsi, non c’erano parole. Siamo tornati in 22 su 605. Fummo portati con violenza inaudita alla stazione centrale di Milano, caricati a calci e pugni sui camion, e lì scoprimmo che c’era una doppia stazione: settemila metri quadri oscuri, con un binario gemello che portava merci e animali al macello. Viaggiammo per una settimana su un carro bestiame senza luce né acqua, con un po’ di paglia, e un secchio che si riempì molto presto. Ricordo ancora l’odore di urina, di paura, di morte. Alla partenza tutti piangevano, ma nessuno stette a sentire, nemmeno Dio. In una seconda fase, gli uomini religiosi si riunivano due o tre volte al giorno al centro del vagone e pregavano con salmi lenti e stupendi. Io, che non ero e non sono credente, li guardavo con un sentimento che rasentava l’invidia, li trovavo fortunatissimi. Infine, gli ultimi giorni, nessuno più piangeva, nessuno si lamentava, nessuno pregava. C’era solo il silenzio essenziale, potente, di chi sa che sta per morire”.

Arrivati ad Auschwitz, a quel silenzio si sovrappone il rumore osceno dei fischi, dei latrati, dei comandi dei torturatori, che danno il via alla ‘grande selezione’, preparata a tavolino, anni prima, alla conferenza del Wannsee. “Un teatro dell’orrore, dell’osceno talmente incredibile e indicibile che è più facile negarlo, come fanno tanti professori che hanno cattedre in alcune università italiane. Ho visto uccidere, morire, ho visto mucchi di cadaveri pronti ad essere bruciati fuori dal crematorio. E voglio continuare a parlarne, a raccontarlo perché ci siete voi e perché ho la mia coscienza: voglio poter dire di aver fatto il mio dovere, una scelta dolorosa, di sacrificio”.

Quando la selezione impone a Liliana di staccarsi dalla mano del padre, nessuno dei due immagina che non si vedranno mai più. “Di 605 che eravamo, scelsero 31 donne e una settantina di uomini. Ero alta, dimostravo più di 13 anni e fui risparmiata. Entrai nel campo e vidi una ciminiera che non sapevo essere il crematorio, poi file di baracche, migliaia di donne scheletrite, rapate, che portavano pietre, marciavano sotto la minaccia dei fucili dei soldati. Fummo private di tutto e rivestite con divise a righe e zoccoli. Non eravamo più le stesse persone che erano scese dal treno. E solo dopo ho capito che ciò che mi aveva perseguitata per tutto l’anno e mezzo di schiavitù al campo era stato quello che Primo Levi, nella Tregua, ha descritto senza retorica come “lo stupore per il male altrui”. Le guardie intorno non avevano fatto una scelta, ma avevano seguito un credo di superiorità della razza, mentre tutti gli uomini hanno pari dignità”.

La fortuna di Liliana fu quella di diventare operaia nella fabbrica di munizioni Union, al coperto. “Non si formavano amicizie, perché non volevo più attaccarmi a nessuno, eravamo solo compagne di sventura. Passai la selezione tre volte. Le kapò ci chiudevano nelle baracche e a gruppi di 50-60 dovevamo attraversare nude una sala, davanti ai soldati, che ci esaminavano e controllavano se avevamo ancora i denti. Poi ti facevano il segno se potevi ancora vivere e finivi con l’essere grata al tuo aguzzino, mentre le ossa delle anche ti uscivano e facevano le piaghe sulla pelle. E fui orribile, vigliacca, spaventosa. Da mesi lavoravo come inserviente di Janine, una francese di 21 anni. Le portavo canestri pesantissimi di acciaio grezzo da cui ricavava i proiettili, ma un giorno la macchina le tranciò le dita e i nazisti la allontanarono per eliminarla. Ho assistito alla scena, ma non mi sono voltata, non le ho detto ‘coraggio’, non l’ho chiamata per nome. E il giorno dopo un’altra operaia era al suo posto. I miei assassini erano riusciti a farmi diventare una lupa affamata ed egoista che pensava solo a mangiare la zuppa a mezzogiorno e una fetta di pane con una specie di margarina la sera”.

Nel frattempo, i tedeschi stanno cedendo il fronte dell’Est ai russi, che nell’inverno tra il ’44 e il ’45 si dirigono verso Auschwitz. “Intorno al 20 gennaio, noi che stavamo ancora in piedi fummo costretti a intraprendere la marcia della morte. Fui liberata il primo maggio nel nord della Germania, dove ero arrivata a piedi o su treni merci scoperti, percorrendo oltre 700 chilometri. Quando racconto, mi sdoppio e ho una pena infinita di quella ragazzina lì, di quella Liliana che ha macinato tutta quella strada, mentre le compagne cadevano stanche e venivano fucilate alla testa dai tedeschi. Ma noi siamo fortissimi, soprattutto noi donne, perché la marcia della morte si deve trasformare in marcia per la vita. Se sono viva , è un po’ per il caso e un po’ perché ce l’ho messa tutta, un passo dopo l’altro. Quindi non dite mai ‘non ce la faccio più’. Plasmate voi la vostra vita, abbiate coscienza di ciò che siete e non ascoltate i bulli, perché sono quelli che da grandi possono fare anche i kapò”.

“Quando capì che ormai la situazione era precipitata, il comandante dell’ultimo campo di prigionia, un SS terribile che col nerbo di bue colpiva le prigioniere scheletrite, si mise in borghese, mandò via il cane e gettò le armi per terra. Fino ad allora mi ero nutrita di odio e di vendetta e per un attimo pensai di raccogliere la pistola di quell’uomo e di sparagli. Sentivo il desiderio fortissimo di ucciderlo, ma poi ho capito di non essere come il mio assassino e di aver sempre scelto la vita. E da allora sono una donna libera e di pace”.

Daniela Modonesi

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