A cosa servono i musei ebraici? Intervista a Simonetta Della Seta
di MICOL DE PAS
La direttrice del Meis di Ferrara spiega cosa significa dirigere un museo dedicato all’ebraismo in Italia.
A che cosa servono i musei ebraici e a chi sono rivolti? Ne abbiamo parlato con Simonetta della Seta, direttrice del MEIS, Museo dell’Ebraismo Italiano e della Shoah, a Ferrara.
“Questa domanda me la sono posta per un intero anno”, spiega la direttrice, “in particolare per quanto riguarda l’Italia. Più nello specifico mi chiedevo perché si deve costruire un museo che tratta di ebraismo. Per rispondere ho parlato con le persone e ho imparato moltissimo, non solo circa la specificità di un museo ebraico, ma anche riguardo a cosa sia un museo in questa era storica. Il museo oggi ha un ruolo diverso dal passato perché ha il compito di dare al pubblico ciò che non è possibile trovare sul web: il contesto in cui le informazioni che sono raccolte nel museo accadevano e l’esperienza”.
Nello specifico di un museo ebraico queste due caratteristiche come si traducono?
“Il Meis è una realtà particolare perché è un museo nazionale che si occupa di tematiche ebraiche e non vuole farlo mettendo gli oggetti in vetrina, bensì raccontando storie legate all’ebraismo in Italia inserite nel loro contesto. Quindi la questione di fondo riguarda il contrasto a una musealizzazione dell’ebraismo, che qui non vogliamo fare”.
Qual è dunque la filosofia del Meis?
“Il Meis è centrato sulla vita ebraica e non su un racconto degli ebrei che non ci sono più. L’esperienza che proponiamo permette a qualunque visitatore di sentirsi agganciato a un percorso legato a qualcosa di identitario. E la questione dell’identità mi interessa sempre perché spesso ne coinvolge una plurima, che riguarda l’essere ebrei, ma che oggi si rivela estremamente attuale e coinvolgente: siamo cittadini italiani, ebrei, ferraresi, europei…. Il percorso intorno all’ebraismo con la vita ebraica al centro (in tutte le sue sfaccettature, dallo studio agli aspetti sociali) è organizzato come un racconto. Ma questo racconto è possibile qui dentro al museo perché è vivo fuori, non perché è morto. Il che è dimostrato anche dagli appuntamenti in calendario al Meis: sono incontri, dibattiti, concerti… Insomma, possiamo vivere questa esperienza perché c’è vita ebraica, i cui valori sono universali e riconoscibili da tutti. Altrimenti il Meis sarebbe un monumento oppure un museo etnografico”.
Ci sono altre realtà simili a quella del Meis?
“Siamo legati al Museo ebraico di Amsterdam che propone un genere di attività simile alle nostre, in stretta connessione con una comunità viva che ne ha fatto un museo diffuso in sinergia con la sinagoga sefardita. Il Museo di Varsavia è simile al nostro, anche se le differenze tra l’ebraismo che si vive in Polonia e quello italiano sono considerevoli, mentre ci troviamo bene con quello di Francoforte che organizza le proprie esposizioni intorno a spunti di vita ebraica. Siamo invece piuttosto distanti da quello di Berlino. A cominciare dall’edificio che lo ospita: disegnato da Libeskind, ha caratteristiche che lo legano alla Shoah, anche se è vero che noi come Meis stiamo ristrutturando il vecchio carcere e che con Berlino siamo in costante dialogo sulla storia degli ebrei tedeschi che ha molti punti di contatto con quella degli ebrei italiani”.
E il Meis come tratta il tema Shoah?
“Il taglio è ben preciso, relativo alla Shoah italiana, come tutto il museo. Ma non siamo connotati come un museo della Shoah o della memoria, noi raccontiamo l’esperienza degli ebrei nell’Italia di quel periodo storico. Da questo scaturisce una terza missione che è quella di occuparci della convivenza e del dialogo tra minoranze e maggioranza”.
A chi parla il Meis?
“Vengono le scuole da tutta Italia, ma anche stranieri, addetti ai lavori e chi non sa assolutamente nulla di questa storia. Sono argomenti rilevanti per tutti, che insegnano almeno due cose: l’esperienza ebraica italiana è alla radice dell’Europa perché gli ebrei italiani si sono sparsi in tutto il Vecchio Continente; i numeri, piccoli, raccontano però una storia importante”.
Il direttore di un museo ebraico deve essere necessariamente ebreo?
“La questione è rilevante. Ma non tanto nell’essere o meno ebreo, quanto nel fatto che un luogo simile deve essere guidato da chi ha una profonda conoscenza della cultura e della lingua ebraica. Non si tratta di appartenenza ma di una rilevanza culturale molto forte”.
Perché l’Italia deve investire in questo progetto?
“I fondi destinati al Meis non vanno a detrimento di altre istituzioni ebraiche, casomai a un altro museo statale. E il Meis è rilevante come museo italiano, europeo, internazionale, come dimostrano i numerosi articoli che parlano di noi negli Stati Uniti. Il motivo? Permette di leggere l’Italia dal punto di vista ebraico, utile prima di tutto agli italiani stessi che spesso non sanno che gli ebrei fanno da sempre parte del tessuto nazionale. Ecco perché l’Italia vuole questo museo: fare luce sugli ebrei italiani e sul contributo che hanno dato alla vita nazionale. E ora grazie ai soldi pubblici e a un’intensa attività di fundraising viviamo in un cantiere che trasformerà il Meis in un edificio molto grande con un percorso coerente, volto a illuminare anche su un secondo aspetto: rendere il pubblico consapevole del dialogo che il Paese ha sempre avuto con una minoranza”.