YEHOSHUA UN RACCONTO FERRARESE
di STEFANO LOLLI
«NON STUPITEVI se mi vedrete passeggiare con un taccuino, prendendo appunti sulle chiese, le strade, le persone. Sto cercando spunti per una “novelletta” (detto in italiano, ndr), che ho deciso di ambientare qui a Ferrara». Abraham Yehoshua ha appena ultimato il suo nuovo romanzo, “Il Tunnel”, che uscirà in Italia a dicembre: ma all’ombra del Castello Estense, e complice la direttrice del Museo Nazionale dell’Ebraismo italiano e della Shoah Simonetta Della Seta, è già coinvolto in un nuovo progetto. Una “novelletta”, appunto; un romanzo breve «incentrato su una giovane ragazza ebrea, e che si svolgerà, per la prima volta, in Italia». Alla ricerca della città ideale, moderno rabdomante, ecco la suggestione di Ferrara: «Conosco naturalmente le opere di Giorgio Bassani, ma non c’entra – l’autore de “Il Signor Mani” e “Il responsabile delle risorse umane” si smarca da possibili influenze –, m’interessa la città». Soprattutto perché ferrara è sede del Meis, il museo che ieri, per la prima volta, ha ospitato la Festa del libro ebraico, chiamando proprio Yehoshua a tenere una lectio magistralis.
RIFLESSIONE a voce alta, con il contrappunto di gesti eloquenti, su cosa è il libro, nella tradizione ebraica: uno strumento formidabile di unità e identità, e
al tempo potenziale fonte di danni. «Proprio il libro, la Torah, ci ha dato la legittimazione di avere un territorio – afferma lo scrittore, dal podio del Teatro Abbado –, e ritrovarci attorno al libro ci ha consentito di conservare la nostra identità anche quando eravamo dispersi, sin dai tempi di Babilonia». Tuttavia il libro, «parte buona della nostra cultura e storia, ne è anche la parte cattiva – incalza Yehoshua –, perché in qualche modo ci disancora dalla terra patria,
dalla nazione, base di ogni altro popolo». E dalla modernità: «Vivere nell’oggi significa andare oltre il libro, avere una terra, una lingua, glorificare la vita anche nella sua essenza materiale». Che è anche, come recitava il poeta Chaim Nachman Balik, «cucire scarpe o pantaloni, lavorare la terra, tutto questo
è cultura». Le Sacre Scritture non hanno preservato gli ebrei dalle tempeste («la Shoah è stata la grande sconfitta del “Popolo del Libro”»), e senza rinnegarle oggi «serve equilibrio, difficile da trovare, ma fondamentale anche per la contemporaneità di Israele».
PROVOCAZIONE, voluta, quella di Yehoshua, che parla tuttavia con affetto di una cultura «che non ha mai condotto guerre di spade, ma combattuto battaglie
di penne e inchiostro», e che perciò è distante dall’immagine «dei soldati nelle strade d’Israele». E sottolineatura del ruolo, comunque lo si guardi fondamentale, del libro ebraico: pagine mai neutre, per chi scrive e legge. «Quando si legge il libro ebraico si fa sempre attenzione a collocarlo nel tempo e nello spazio rispetto alle generazioni passate, per quanto potrà valere per le generazioni passate, per quanto cambia o conferma una nostra convinzione – afferma Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane –. Parlare qui del libro ebraico, in questa sede del Meis,
equivale ad affermare che ci interroghiamo sulla nostra identità, sul nostro poter essere futuro, sul terrore che il libro che leggiamo sia profezia, anziché
memoria».
SFOGLIANDO dunque le pagine della Festa, in cui si sono alternate la biografia del medico e talmudista del Settecento ferrarese Isacco Lampronti, al romanzo
di Lia Levi “Questa sera è già domani”, che si impernia sulle leggi razziali, riecheggiano inevitabilmente le parole di Giorgio Bassani. Che parlando della propria missione, oltre che di scrittore, di storico di se stesso e della società, confessava il desiderio «che i miei racconti avessero un significato nuovo, più ricco e profondo di ciò che produceva la letteratura italiana d’allora, anche la più importante». Sempre si tratta del Libro, quello orgogliosamente con la maiuscola, o della “novelletta” che Yehoshua inizierà a scrivere, da oggi, proprio fra le strade del Ghetto estense.