Tra le macerie si nascondono semi di rinascita
Giovedì cade il 9 di av. Il giorno di lutto per eccellenza nel calendario ebraico. Anticipato dalle tre settimane, dette “di ristrettezze” che iniziano il 17 di tammuz, giorno in cui si ricorda la breccia aperta dai nemici contro la città di Gerusalemme, questo periodo è contraddistinto da un crescere di mestizia fino a raggiungere l’apice in corrispondenza della commemorazione della distruzione del primo e secondo Tempio ad opera dei babilonesi 586 a.e.v. e dei romani 70 d.e.v. Chi entrasse in una sinagoga in questi giorni si accorgerebbe degli arredi sobri e persino sfilacciati o anche assenti del tutto, a simboleggiare il lutto per Gerusalemme. Tutto concorre a creare un senso di pena per quella città distrutta, prima ricordata dalle genti come “magnifica bellezza, gioia della terra” (lam. 2:15). Un’oppressione che si proietta anche nella vita delle comunità, attraverso i riti che suggeriscono di limitare nei giorni precedenti il consumo di carne, persino di godere degli abiti stirati e inamidati o di radersi; Yehudà Ha-Levì (XI sec.) sommo interprete della nostalgia per Sion, di fronte a tanto dolore ma anelante la città santa si chiede: “chi mi darà ali e mi farà nomade fino a raggiungerla” (dalla poesia Zion halò tishalì). Una famosa elegia che si recita il 9 di av mette a confronto l’esultanza al momento dell’uscita dall’Egitto con la tristezza che ha caratterizzato l’esilio da Gerusalemme invitando così a riflettere sulla sottile differenza tra i termini ebraici Golà (diaspora) e Gheullà (liberazione, redenzione). Tutto sta in una alef in più. La prima lettera dell’alfabeto ebraico, la cui radice significa “apprendere” e il cui valore è uno. Due pietre miliari del mondo ebraico, Dio unico e istruzione; garanzia per la sopravvivenza del popolo. Una conferma dell’insegnamento dei maestri di Israele secondo cui il giorno del 9 di av, tra le macerie di Gerusalemme si nascondo i semi della rinascita e tra le lacrime di chi la piange, la nascita del Messia.