NUOVE NARRAZIONI. EBREI. UNA STORIA ITALIANA. I PRIMI MILLE ANNI

di Daniele Jalla

“Ebrei. Una storia italiana. I primi mille anni” è stata una mostra di prefigurazione della prima parte del futuro Museo, dalle origini della presenza ebraica nella penisola italiana sino al XII secolo. Una sorta di prova generale del museo, dunque, per verificare l’efficacia di un nuovo modo di presentare la storia in un museo ponendo al centro non le cose, ma le persone. Meglio: le persone attraverso le cose.

Un museo – si sa – comunica essenzialmente attraverso le cose, ma in quest’occasione gli oggetti (più di 200, alcuni dei quali non erano mai stati esposti in precedenza) sono stati scelti e presentati non tanto per essere guardati e ammirati in sé, ma come testimonianze di una storia ricostruita e raccontata in mostra attraverso i titoli e i testi di sala, i documenti e le immagini, le ricostruzioni e le evocazioni di ambienti, di situazioni, di eventi. Con l’obiettivo di rispondere ad alcune domande di fondo: da dove sono venuti gli Ebrei italiani? Quando? Perché? E, una volta giunti in Italia, dove hanno scelto di restare? Quali rapporti hanno stabilito con le popolazioni residenti, con i poteri pubblici: prima con la Roma imperiale, poi con la Chiesa, ma anche con i Longobardi, i Bizantini, i musulmani sotto il cui dominio hanno vissuto? E ancora: quali sono stati la vita, le consuetudini, la lingua, la cultura delle comunità ebraiche d’Italia nel corso di tutto questo lungo tempo? E infine: cosa ha di particolare e di specifico l’ebraismo italiano rispetto a quello di altri paesi della Diaspora?

Le risposte che, per la prima volta con tanta completezza, la mostra ha cercato di dare, partono da un fatto, unico in tutta la Diaspora ebraica occidentale: l’antica presenza di Ebrei nel nostro Paese da più di duemila anni, durante i quali le loro vicende si sono intrecciate ininterrottamente con la storia del nostro Paese.

Il percorso della mostra iniziava dai luoghi d’origine del popolo ebraico dal XII secolo prima dell’era volgare al 70 dopo, passando quindi a Gerusalemme nell’anno drammatico della distruzione del Secondo Tempio da parte dei Romani – un momento destinato a cambiare tutta la storia successiva degli Ebrei – per arrivare a Roma, dove gli Ebrei, deportati a migliaia, giungono trovando una fiorente comunità ebraica che, come in molte altre città del sud Italia, esiste del resto, dal II secolo prima dell’età volgare. Sono Ebrei sono migrati liberamente, per ragioni economiche e commerciali, come altri popoli, dalle altre sponde meridionali e orientali del Mediterraneo, attratti dalla Capitale di un impero che è anche una città multiculturale, aperta, tollerante.

Le epigrafi e gli oggetti della vita quotidiana dell’Urbe e della vicina Ostia sono stati selezionati per far entrare i visitatori in contatto con le ebree e gli ebrei della Roma imperiale: gente comune, adulti, anziani, bambini, presenti da tempo o di recente arrivo, liberi cittadini o ex schiavi affrancati dai loro correligionari, ma anche proseliti, dando modo di scoprirne i nomi, i ruoli nelle comunità e nella società, la lingua che parlavano, la cultura, le abitudini. Una minoranza fra le tante minoranze che vive senza urti drammatici nella società pagana del suo tempo, con cui ha continui e quotidiani scambi. Gli Ebrei, che diventeranno cives romani al pari degli altri, hanno però una propria, distinta identità. Per loro scelta e volontà, si sono integrati, ma non accettato di farsi assimilare, anche grazie a un contesto in cui i pregiudizi, che pure non mancano, non generano intolleranza ed esclusioni degli Ebrei.

Presenti non solo a Roma, gli Ebrei sono giunti e vivono soprattutto nelle regioni meridionali della Penisola: in Puglia, Sicilia, Basilicata, Calabria, Campania, Sardegna, dal II secondo secolo prima dell’era volgare, crescendo di numero dopo le deportazioni del 70. Qui le loro comunità si sono diffuse capillarmente nel corso di secoli caratterizzati dall’alternarsi delle dominazioni longobarda, bizantina, musulmana. Per questo la seconda parte della mostra è stata concepita come un viaggio attraverso le comunità ebraiche del meridione, mettendo in luce che si tratta di comunità ben integrate nella società che li circonda, di cui hanno assorbito la lingua e la cultura e con cui hanno instaurato uno stabile rapporto di scambio e convivenza. Senza per questo perdere la propria identità.

In questi primi secoli dell’era volgare la presenza di Ebrei al centro e al settentrione è invece più sporadica, in crescita da quando le persecuzioni dei Bizantini indurranno molti Ebrei a lasciare il sud verso il centro e il nord della Penisola e a spingersi sino alla Valle del Reno.

Passano i secoli e in una società sempre più cristianizzata, in cui cresce il dominio della Chiesa per gli Ebrei ha inizio una nuova condizione, diversa da quella riservata a eretici e infedeli, perseguitati o eliminati. La loro esistenza è ammessa, ma a condizione che essi accettino e subiscano di vivere in uno stato di inferiorità codificata. “È una scelta – ha scritto Anna Foa nel Catalogo della mostra – che la Chiesa non fa per una necessità economica, ma teologica: gli ebrei erano necessari, lo aveva spiegato Agostino, al compimento dei tempi. La loro presenza rappresenta lo specchio rovesciato del mondo cristiano, ne raffigura la supremazia, ne afferma la verità di fronte all’errore, ne è testimone.

Per questa la Roma cristiana e cattolica manterrà i suoi ebrei. E la comunità ebraica di Roma avrà così modo di essere la più antica d’Occidente.

La mostra ha anche voluto mettere in evidenza la diffusione, la varietà e la ricchezza culturale dell’Italia ebraica meridionale, dedicando una sezione al suo apice, fra il VII e l’XI secolo, raggiunto anche grazie all’influsso degli inviati nelle comunità ebraiche dalle accademie rabbiniche. Facendo così sì che dall’Italia del Sud sia passato anche l’incontro tra i due grandi rami della cultura rabbinica, quella palestinese e quella babilonese, e si sia affermata un’originale cultura ebraica “italiana” ben prima di quella ashkenazita in Germania e di quella sefardita in area andalusa. L’Italia meridionale è stata così la prima culla della Diaspora occidentale.

A chiusura della mostra è stata posta l’immagine delle comunità ebraiche incontrate in Italia dall’ebreo navarrese Beniamino da Tudela nel suo viaggio a Oriente tra il 1153 e il 1179: una presenza diffusa da Genova a Palermo, integrata e non assimilata, portatrice di una tradizione destinata a perdurare, anche se non negli stessi luoghi e alle stesse conseguenze. Perché gli Ebrei, ha scritto Giancarlo Lacerenza nel Catalogo della mostra, “da una delle tante minoranze dell’Impero romano sono divenuti l’unica ad aver resistito, parte, minoritaria, ma capillarmente diffusa e, soprattutto, strutturalmente integrata di una società sempre più largamente cristiana”.

Non sarà così nel secondo millennio. Le violenze che nel 1096 avevano toccato la Germania renana diventano frequenti anche in Italia. Fra il 1510 e il 1540 gli Ebrei saranno radicalmente espulsi dall’Italia meridionale, prima da Sicilia e Sardegna nel 1493, poi dall’area peninsulare. E di una presenza antica, folta e importante si perderanno così anche le tracce.

Toccherà al Museo raccontare il seguito di mostra cui è stato posto l’obiettivo di far rivivere la memoria, per lo più ignorata, del primo millennio di presenza ebraica in Italia. E insieme quello di porre degli interrogativi che riguardano il nostro presente: il rapporto fra società maggioritaria e minoranze, i valori del riconoscimento e del rispetto dell’altro, e le differenze che esistono fra integrazione, convivenza e assimilazione.

Nella convinzione che, senza essere maestra di nulla, la storia – e una mostra o un museo che ce ne parlano – prendono senso solo se ci aiutano anche a porci delle domande sul nostro presente, lasciando a ciascuno di trovare le sue.

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