«Mio padre nella lista di Schindler»

Stefano Lolli

«SONO NATO su un treno mentre la città bruciava». Schulim Vogelman parla attraverso la voce del figlio Daniel, autore de Piccola autobiografia di mio padre, pubblicato dalla sua Giuntina.

Piccola, anzi piccolissima autobiografia. Appena trenta pagine, benché distillate in modo esemplare.

«Anche a scuola ero bravo a far riassunti, forse anche un po’ per pigrizia. La realtà è che di mio padre sapevo pochissimo, a me diceva poche parole su quello che gli era successo».

Perché?

«Forse per non turbarmi. Anche se il silenzio, spesso, è peggiore di mille parole».

Le leggi razziali, la prigionia ad Auschwitz, dove morirono la sua prima moglie e la figlia. Poi il lavoro, nella tipografia diventata grazie a lei una casa editrice. Forse qualche pagina in più sarebbe servita.

«Ha ragione, ma che vuole, anche le mie poesie sono di poche righe, e le barzellette anche più corte. Così è stato per il libro su mio padre: o scrivevo 800 pagine, o trenta. Ho scelto la seconda via».

Eppure il racconto è eloquente, carico di pathos. In poche righe descrive l’incubo del viaggio verso Auschwitz, l’orrore del lager, ma anche una sorta di inaspettata fortuna.

«Se si può chiamare fortuna, e senz’altro lo fu, mio padre fu riconosciuto come tipografo, e mandato a lavorare in una stamperia, dove almeno poteva mangiare e stare al caldo. Poi per il fatto di conoscere le lingue, riuscì a farsi trasferire a Cracovia, nella fabbrica di un certo Schindler».

Quel ‘certo’ Schindler?

«Sì, e la curiosità è che ho saputo per caso chi fosse. Addirittura nel 1993, quando un amico, Ermanno Smulevich, mi disse di guardare il film di Spielberg, perché su una lista c’era il nome di mio padre».

Oggi al Meis parteciperà alla Giornata della Memoria. Qual è il significato di queste iniziative, per lei? Di recente, a Ferrara, Liliana Segre ha detto che sono fondamentali per i giovani.

«Senz’altro, ma cosa possono ricordare, visto che spesso non sanno nulla? Queste sono occasioni importanti per studiare, conoscere, magari anche capire».

E’ stata la lezione di suo padre, che lei definisce un ishanàv, un uomo semplice.

«Ma con segrete ambizioni. Compresa quella che io studiassi di più, che non facessi il tipografo come lui, e magari diventassi medico: in una famiglia ebrea è il massimo».

Invece è un editore e ora anche uno scrittore.

«Non esageri, ho pubblicato un volumento ogni vent’anni. Adesso magari mi monto la testa».

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