«L'antisemitsmo è figlio del pensiero semplificato»

di Camilla Ghedini

«Per me essere ebreo significa innanzitutto tenere accesa la luce dell’intelligenza e della lucidità. Chi segue la nostra tradizione compie una ginnastica mentale quotidiana di studio che porta ad elaborazioni continue. L’antisemitismo di ritorno è inevitabile in un periodo di semplificazione del pensiero. Oggi si pensa che la reazione emotiva sia più importante della razionalità, per cui Hulk è meglio di Spinoza». Così Luca Barbareschi, artista eclettico che nel ruolo di co-produttore (insieme al Alan Goldman) de L’ufficiale e la Spia di Roman Polanski sarà stasera, alle 21, alla Multisala Apollo, a presentare al pubblico la pellicola, vincitrice del Gran Premio Giuria alla Biennale di Venezia 2019. Uscito lo scorso novembre, il film racconta l’Affare Dreyfus, uno dei più gravi errori giudiziari della storia. Francia, 1894-1895: il Capitano ebreo Alfred Dreyfus viene ingiustamente accusato di spionaggio e tradimento per conto della Germania ed esiliato all’Isola del Diavolo, nella Gujana francese. A nulla valgono i suoi proclami di innocenza. In sua difesa si schiera anche Emile Zola, nel suo famoso J’accuse, in cui punta il dito contro il clima di antisemitismo imperante nella Francia della Terza Repubblica. Centrale, nella versione Polanski, è la figura di Georges Picquart, ufficiale dell’esercito francese testimone dell’umiliazione inflitta a Dreyfus, poi perseguitato dal dubbio, dal tormento e dal senso di colpa. Barbareschi, oltre al successo di critica, L’ufficiale e la spia sta riscuotendo quello del pubblico, con 2 milioni di spettatori in Francia e 700 mila in Italia, con un film giunto in sala nei giorni in cui scoppiava il caso Segre, con la senatrice a vita minacciata e messa sotto scorta. Se lo aspettava? «No, perché il mercato è davvero complesso. Diciamo che ci speravo ma non ci contavo. La pellicola ha avuto una genesi lunga e complessa, la concomitanza con certi fatti è la conferma che l’ispirazione artistica si basa su intuizioni, precedendo la realtà». Lei, direttore del Teatro Eliseo di Roma, sostiene l’arte come strumento di conoscenza, soprattutto per le giovani generazioni. Non dubita mai? «Ogni giorno mi pongo domande. Il concetto di libero arbitrio è finito. A breve, il Kindle leggerà noi. Noi pensiamo di essere soggetti attivi ma siamo polli da allevamento. L’algoritmo è più intelligente dell’uomo». Assistiamo a un linguaggio bellicoso. Lei invoca spesso il valore del perdono, perché? «Perché il rancore non porta nulla, non ci rende migliori. Ogni volta che nella vita mi sono vendicato, anche solo verbalmente, sono stato peggio. Non siamo degli Dei, ma degli Dei in esilio».

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