La storia e i volti dell’Ebraismo. Ecco il museo nazionale a Ferrara
«ANIMA buona, amico di tutti». Nell’epigrafe di Alexander, macellaio al mercato, è racchiusa la storia di un’intera minoranza capace di integrarsi, di conquistarsi riconoscimento e rispetto, sfuggendo tuttavia all’assimilazione. Quella di Alexander, come dei fratellini Avraham e Neta’el, dei proseliti Ovadyah e Felicita, è una delle tracce, fuggevoli e potenti, che accolgono il visitatore della mostra ‘Ebrei, una storia italiana. I primi anni’, evento inaugurale del Museo Nazionale dell’Ebraismo e della Shoah. A tagliare il nastro saranno, oggi, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini: quest’ultimo, nel 2002, promotore (assieme a Vittorio Sgarbi) della legge ‘bipartisan’ che istituiva il nuovo museo e, non senza una strenua difesa dalle mire di Roma, lo incardinava a Ferrara. Collocandolo nell’ex carcere di via Piangipane, dismesso nel 1992, e che durante l’Olocausto ospitò anche molti ebrei. Un luogo simbolico, di cui però l’impegnativo restauro, e ora l’allestimento della mostra, hanno cancellato la durezza materiale, consegnando ai visitatori un complesso tecnologicamente d’avanguardia, e destinato a crescere ancora: entro la fine del 2020, infatti, saranno edificati nuovi corpi di fabbrica che assumeranno la forma, suggestiva, dei libri della Torah. Un progetto da oltre 40 milioni di euro, tra gli investimenti più rilevanti in cultura dell’intero panorama nazionale.
IL VARO è sancito dunque dall’apertura di una mostra importante, nel tema oltre che nei reperti, nei documenti e nelle preziose opere esposte: rivive, in un percorso che mescola installazioni video, oltre duecento tra oggetti antichi, manoscritti, anelli, sigilli, monete, lucerne, amuleti, la storia della presenza ebraica in Italia sin dalla distruzione del tempio di Gerusalemme e dalla prima deportazione a Roma. Di quel viaggio, prima dolorosa pagina di una storia segnata nei secoli da tormenti oltre che da pagine mirabili, il colpo d’occhio iniziale del fregio dell’arco di Tito, ricostruito negli anni ‘30, che accoglie il pubblico nelle prime sale.
DI LÌ, tra evocazioni di fuoco e fiamme, musiche e deserti, catacombe ricostruite nel dettaglio, si diparte il percorso, in cinque ideali ‘quadri’, con cui i curatori Anna Foa, Daniele Jalla e Giancarlo Lacerenza accompagnano i visitatori – anche i meno esperti di storia antica e di ebraismo – alla scoperta di un’anima, di volti, di luoghi. E di un’eccezione, che rende lo stesso Meis un punto di riferimento unico al mondo: quella degli ebrei in Italia, è la vicenda di «una delle tante minoranze dell’impero romano che è divenuta, nel tempo, l’unica ad aver resistito, parte, minoritaria, ma capillarmente diffusa e, soprattutto strutturalmente integrata di una società sempre più largamente cristiana», scrive Lacerenza nel catalogo. Una presenza «necessaria», quella degli ebrei secondo Anna Foa, al compimento dei tempi. A corredo, lo spettacolo multimediale ‘Con gli occhi degli ebrei italiani’, che rappresenta l’introduzione permanente ai temi del museo.