Il Rinascimento parla ebraico
“Il Rinascimento italiano non esisterebbe senza l’ebraismo” sostiene Giulio Busi, uno dei due curatori della mostra Il Rinascimento parla ebraico allestita al MEIS – Museo Nazionale dell’Ebraismo italiano e della Shoah di Ferrara (fino al 15 settembre). La mostra ricostruisce il confronto fra cultura ebraica e cristiana in età rinascimentale attraverso oggetti, documenti e opere d’arte. Particolare rilievo è assegnato all’inserimento di testi in ebraico nelle opere d’arte sacra, in alcuni casi riprodotte con rielaborazioni grafiche e movimenti di camera simulati da software di ultima generazione. La Madonna in trono della pala Roverella, dipinta dal ferrarese Cosmè Tura nel 1474, sparisce in dissolvenza dallo schermo insieme al suo trono, per dare risalto alle due tavole dei comandamenti scritti in ebraico poste ai lati dello scomparto. La Disputa del SS. Sacramento dipinta da Raffaello nel 1509 slitta lateralmente mentre una transizione porta l’attenzione su un dettaglio.
La “coinvolgente scenografia concepita dai progettisti dello studio GTRF di Brescia” testimonia come le tecnologie di registrazione e riproduzione dell’immagine abbiano modificato il nostro sguardo. Attraverso la Madonna in trono dipinta a olio, o la sua riproduzione rielaborata con tagli e movimenti di camera, non vediamo allo stesso modo.
L’esperienza di trovarci a tu per tu con la quattrocentesca Madonna in trono, o con qualsiasi altra opera d’arte, è intraducibile. Lo aveva reso noto al grande pubblico John Berger attraverso Ways of Seeing – Modi di vedere, una serie di episodi trasmessi in quattro puntate dalla BBC nel 1972. Nell’episodio 1, ispirato al saggio di Walter Benjamin L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (Einaudi, Torino 2000), Berger dimostra come la riproduzione di un’opera attraverso movimenti di camera modifichi radicalmente il suo significato. Lo slittare, ingrandirsi e dissolversi delle immagini nell’allestimento al MEIS di Ferrara fa altrettanto. Il progetto espositivo illustra la tesi dei curatori, illustra cioè un testo senza tener conto del fatto che la nostra è anche e soprattutto una cultura visuale, la cui problematicità necessita di un approccio critico, senza il quale la cultura visuale rischia di precipitare in quella dell’intrattenimento. La “coinvolgente scenografia” che accompagna il visitatore lungo le sale del MEIS, trascurando le conseguenze della riproduzione dell’opera d’arte sulla sua interpretazione, ha l’attenuante che la cultura ebraica, alla quale la mostra fa riferimento, è una cultura del testo, anzi del Libro, nella quale non solo vige il divieto di “farsi immagini”, ma talvolta anche la grafia stessa del testo è soggetta a restrizioni.
A questo proposito è interessante notare come in Nascita di Maria, dipinta da Vittore Carpaccio e bottega, la forma grafica delle consonanti che compongono il Tetragramma (la sequenza delle quattro lettere ebraiche che formano il nome del Dio d’Israele: YHWH) sia imperfetta. Per un effetto percettivo di tipo illusionistico, l’imperfezione fa apparire scritto per esteso ciò che il realtà non lo è. L’espediente tradisce la preoccupazione ebraica di evitare la grafia completa del Nome divino. Questo dettaglio, apparentemente secondario, rivela come un approccio critico al visuale sia inscindibile da un approccio critico alla lettura.
A differenza di quella di Cosmè Tura, l’opera di Carpaccio è presente. In mostra anche Cristo e i dottori e Gesù dodicenne al Tempio di Ludovico Mazzolino, Il profeta Elia e Il profeta Eliseo di Sassetta, La Sacra Famiglia e la famiglia del Battista di Andrea Mantegna esposta nella sezione diciassettesima della mostra, ma per comprendere al meglio ciò che l’imperfezione grafica nel dipinto di Carpaccio ha rivelato è necessario tornare alle sezioni quarta e quinta, dove sono esposti degli arredi sacri sinagogali e un Rotolo della Sefer Torah in pergamena risalente al 1250 circa.
La lettura di questo Rotolo, ancora oggi in uso nella liturgia sinagogale, rivela alcuni punti di contatto con la lectio divina cristiana, nel corso della quale il lettore modulava la voce mentre percorreva le pagine concepite come un pagus, una circoscrizione rurale posta al di fuori dei confini della città. Secondo Ivan Illich, autore del saggio Lectio divina. La lectio nel mondo antico e tardo antico in Origine della scrittura. Genealogie di un’invenzione (a cura di Gianluca Bocchi e Mauro Ceruti, Bruno Mondadori, Milano 2002), questa concezione della pagina come luogo affonda le sue radici nell’utopia ebraica per la quale non c’è altra casa al di fuori del Libro.
Al piano superiore del MEIS è allestita la mostra permanente Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni, che racconta con un apparato di documenti, immagini e interviste come la distruzione del Tempio di Gerusalemme, avvenuta nel 70 d.C., fece della religione degli ebrei una cosa diversa da prima. La spiritualità della cultura ebraica e la connessa utopia del “sentirsi a casa senza casa nel testo” si appoggiano al fatto che non c’è il Tempio. Il Tempio unico è stato sostituito dalle sinagoghe sparse per il mondo e il culto sacrificale dallo studio e dalla lettura intonata della Torah.
Prima della lettura silenziosa o mentale era in uso quella ad alta voce. In età greco-romana la modulazione espressiva della voce era indispensabile per far emergere il senso del testo nella scriptio continua, una scrittura sprovvista di interruzioni o spazi fra le parole. Con il Cristianesimo, il termine lector passò ad indicare un ruolo associato al titolo di vescovo, prete o diacono impegnato nella lettura in pubblico. La lettura ad alta voce divenne così la lectio divina, di cui Illich ha messo in evidenza il rapporto con l’utopia ebraica, finché una nuova tecnologia rese possibile un diverso tipo di lettura: la lectio scholastica, silenziosa e mentale. Educato alla lettura ad alta voce, Agostino ricorda il suo stupore nel vedere Ambrogio impegnato nella lettura silenziosa, spiegandosi che forse lo faceva per “evitare d’esser costretto da un uditore attento e curioso a spiegare qualche passo oscuro” o “per conservare la voce, che facilmente gli si abbassava” (Confessioni, VI, 3.3). La separazione prima fra piccoli gruppi di parole, poi di frasi e infine fra parola e parola e successivamente, a partire dal XIII secolo, la suddivisione dell’opera in capitoli e paragrafi, la distinzione fra lettere maggiori e minori, i sistemi di rimando fra testo e commento e gli indici analitici fecero della pagina così organizzata uno strumento che trasformò le strategie di pensiero e la mente stessa del lettore. Sul passaggio dalla lettura ad alta voce a quella silenziosa può essere utile anche la lettura del saggio di Guglielmo Cavallo Del rotolo, del codice e di altri aspetti della cultura scritta antica e medievale in La forma del libro. Dal rotolo al codice – secoli III a.C-XIX d.C., pubblicato in occasione della mostra alla Biblioteca Medicea Laurenziana (Mandragora, Firenze 2008). La lectio scholastica nacque nelle università insieme a una nuova tecnologia di lettura silenziosa che ancora oggi caratterizza il nostro rapporto intellettuale, critico e speculativo con la pagina scritta, assai diverso da quello fisico e sensuale della lettura ad alta voce, della vox paginarum, della voce che percorreva le pagine come se fossero un frutteto dove cogliere e assaporare le parole.
Nel Museo della Cattedrale di Ferrara, quasi nascosta dietro le quattro tele che compongono San Giorgio e la principessa dipinto da Cosmè Tura, si trova la quattrocentesca Madonna col Bambino (Madonna della melagrana) scolpita da Jacopo della Quercia. L’opera è chiamata dagli abitanti della città Madonna del pane per il Rotolo della Legge, impugnato dal Bambino con la mano sinistra, che assomiglia al tipico pane ferrarese chiamato ciopa o ciupeta. La devozione popolare ha conservato l’idea della parola scritta come nutrimento, nonché l’idea propriamente ebraica d’incorporare la pagina masticandola (manducatio) nel corso della lettura.
La mostra organizzata al MEIS ha il pregio di portare l’attenzione sul fatto che un approccio critico al visuale sia inscindibile da un approccio critico alla lettura, sollecitando al contempo una riflessione su come le tecnologie di scrittura e lettura abbiano modificano il nostro modo di pensare.
Alla lectio scholastica, che ancor oggi impegna docenti, ricercatori e studenti, si affianca la lettura in Internet la cui struttura ipertestuale è principalmente associativa. Ogni link lancia verso altri argomenti e, dopo alcuni passaggi, si perde la capacità di cogliere le relazioni strutturali che intercorrono fra il contenuto di partenza e quello di arrivo. Inoltre, come osserva Boris Groys nel testo Google: Words beyond Grammar (Google: le Parole oltre la grammatica) pubblicato nel 2012 per la mostra Documenta 13, il sistema di domanda e risposta è completamente cambiato: “Se vogliamo fare delle domande al mondo agiamo come utenti Internet. Se vogliamo rispondere alle domande che il mondo ci pone agiamo come fornitori di contenuto. In entrambi i casi il nostro comportamento dialogico è definito dai modi e dalle regole specifiche in cui si possono fare domande e si può rispondere all’interno del quadro di Internet […] secondo queste regole ogni domanda deve essere formulata come una parola o una combinazione di parole. La risposta viene data come un insieme di contesti in cui questa parola o combinazione di parole può essere trovata dal motore di ricerca” (pp. 4-5 della versione in lingua inglese qui tradotta). Groys nota che nell’uso freudiano del linguaggio le singole parole funzionano quasi come link d’Internet: “si liberano dalla loro posizione grammaticale e cominciano a funzionare come connessioni con contesti altri, subconsci” (p. 13).
La lettura in Internet sostituirà quella scholastica?
Così come un approccio critico al visuale potrebbe contrastare il meccanismo che fa precipitare la cultura visuale in quella dell’intrattenimento, forse anche un approccio critico alla lettura potrebbe sviluppare un atteggiamento consapevole, utile per navigare nel flusso di parole e immagini in Internet senza correre il rischio di naufragare.
I due approcci critici sono correlati, come suggerisce la sezione tredicesima della mostra al MEIS, dove è esposta una pergamena dell’Albero Sefirotico lungo il quale discende l’energia divina per dieci gradi o sefirot. Il suo prototipo è l’albero di Porfirio. Se pur usato dai filosofi ebrei come immagine mistica, questa figura ha valore logico e fornisce uno schema grafico per una catena di subordinazione dei concetti. Giulio Busi è anche l’autore del saggio Qabbalah visiva (Einaudi, Torino 2005), dove analizza questa figura grafica (pp. 76-78) nel contesto di uno studio del disegno mistico nella tradizione ebraica. Mettendo in parallelo la lettura del libro di Busi e la visita alla sezione tredicesima della mostra, si può notare che l’Albero Sefirotico ha l’aspetto della mappa di un sito web. Rimuovendo i collegamenti ipertestuali è possibile mettere a nudo l’albero sottostante: la catena di subordinazione dei contenuti, che la sovrastruttura ipertestuale invece porta alla deriva.
Non può esserci un approccio critico al visuale senza un approccio critico alla lettura e – per chi sappia leggere – le parole nel Rotolo, impugnato dal Bambino scolpito da Jacopo della Quercia, hanno ancora il gusto e la fragranza della ciopa o ciupeta ferrarese.