IL RINASCIMENTO PARLA EBRAICO

Gian Pietro Zerbini

Un connubio capitale che ha come denominatore comune proprio Ferrara. La città estense è stata infatti uno dei centri più importanti in Italia e in Europa di quel periodo di rinascita culturale e creativa, oltre che di trasformazione, che è stato il Rinascimento. Al tempo stesso da qualche anno a questo parte, grazie al Meis, Ferrara ambisce a diventare un polo d’eccellenza della cultura ebraica in Italia e nel mondo. Per questo motivo assume una particolare correlazione il legame che si instaura con la mostra “Il Rinascimento parla ebraico” che domani verrà inaugurata al museo dell’ebraismo di Ferrara.

È un intreccio di pittura e cultura dove emerge con forza la presenza ebraica anche nelle maggiori opere artistiche dell’epoca, chiaramente ispirate ai valori e alla tradizione cristiana. Basta pensare al quadro simbolo della rassegna, la “Sacra famiglia e la famiglia del Battista” di Andrea Mantegna – che da solo vale il prezzo del biglietto – per capire come i legami con l’ebraismo siano costanti nell’iconografia cristiana, specie nel Rinascimento. La rassegna curata da Giulio Busi e Silvana Greco offre anche la possibilità di spaziare su un periodo nel quale molti ebrei hanno contribuito a sviluppare e ad elevare la cultura del tempo dopo i secoli bui del medioevo. E chissà che questa esposizione non porti nuova linfa ad un museo che tra tagli ministeriali e lotti da costruire ancora si deve assestare. Ma siamo, anche con questa mostra, sulla strada giusta.


LA MOSTRA

Simboli e parole della cultura ebraica. Con il contributo artistico di Ferrara

Micaela Torboli

Contrapporre Medioevo a Rinascimento, come il buio rispetto alla luce, non ha senso. Una separazione netta tra periodi serve solo per comodità. Ci sono molti Rinascimenti, con specificità originali. In Italia talora si fa partire il Rinascimento da Giotto, nato intorno al 1265, ma una rondine non fa primavera. Per l’arte della Penisola esso copre grossomodo il Quattrocento e parte del Cinquecento, almeno fino al Concilio di Trento. La letteratura aveva iniziato un cammino più precoce di evoluzione, insieme al formarsi della lingua volgare, ma il latino rimarrà l’idioma di Chiesa, Studio e cancellerie. Altrove il Rinascimento (che non sempre coincide con l’Umanesimo) fu molto più tardo, ad esempio in Inghilterra parte dall’epoca Tudor e culmina al tempo di Elisabetta I e di Shakespeare: parliamo della seconda metà del ’500.

VISIONE EBRAICA Uno dei tanti Rinascimenti parla ebraico, come precisa la mostra che il Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah di Ferrara offre al pubblico da domani. È tra i più preziosi e circonvoluti. Scaturisce dall’interesse degli studiosi cristiani per le culture e le fedi dette prische, antiche antichissime, che essi volevano penetrare nei loro ormai misteriosi significati. Capire, prima di tutto gli idiomi. Croci e delizie, pochi le sapevano tradurre, solo i più sfegatati tra gli intellettuali.

Alcune lingue resteranno ostiche, altre no, come l’ebraico, perché gli ebrei dimoravano nei paesi cristiani e si poteva attingere dalla loro sapienza. E tentare di accostarla alle arti. La Legge mosaica proibiva le immagini, ma le lettere dell’alfabeto ebraico erano belle, e molti pittori le usavano per arricchire le scene bibliche o antiquariali. Non sempre c’erano a disposizione consulenti, quindi nei dipinti troveremo lettere corrette e altre fatte di strani caratteri creati unendo i cufici (antica grafia araba) con gli ebraici, i greci o i siriaci. Nell’Italia settentrionale si formò un triangolo d’oro per questo tipo di stimolo: Ferrara, Mantova e Padova i vertici. Con il contributo parziale di Venezia, dove non c’era una corte né l’università, sedi proprie del fenomeno, ma vi giungevano navi cariche di oggetti sfiziosi e personaggi esotici, nonché marmi, anche di spoglio, usati per zavorrare le stive, ma ricercati dagli artisti che ambivano a ricreare atmosfere antiche e che da questi negletti esemplari traeva no spunti. E c’era il Ghetto, che è parola veneta pronunciata alla tedesca dagli ebrei che venivano dal Nord Europa, da gèto a ghèto, ovvero la fonderia dei getti di metallo posta in un’area dove essi furono relegati. Secondo altri, ghet era invece uguale a separazione in ebraico.

A Padova poi operava la scuola di Squarcione, mediocre pittore ma pioniere della ripresa dell’antico. I suoi allievi hanno nomi formidabili, tra essi Andrea Mantegna e Cosmè Tura, accomunati dal gusto per Ellade e Roma imperiale. Mode di punta, ma si cercò qualcosa in più. E riapparvero le atmosfere ebraiche. Per l’Europa sono state enumerate da Gad Sarfatti un centinaio di opere d’arte eseguite da cristiani recanti scritte ebraiche. La lista è stata ampliata da M. Luisa Mayer Modena e da altri studiosi. Giulio Busi ne ha svelato aspetti sconosciuti, specie nel suo L’enigma dell’ebraico nel Rinascimento (2007).

La presenza degli ebrei nella capitale ducale significava mille cose, di profilo economico, di costume, di cultura. L’apertura verso di essi, seppur limitata e non scevra di elementi di emarginazione, era tra le più elastiche possibili in contesti urbani e statali ostili in linea generale.

UN ESEMPIO Le cronache estensi del 1487 registrano le serate di gioco d’azzardo che si tenevano tra il duca Ercole I e un ebreo detto «zodio Abbram», compagno di svago anche dei principi e di altri membri della casata. I ferraresi avevano una certa familiarità rispetto al mondo ebraico e alle sue caratteristiche, l’arte nostra ne tenne conto. Gli ebrei vi contrapponevano una parola: Halakhà, le regole che riguardano le arti per la normativa ebraica. Non sempre rispettate, come accade. Tra esse quanto attiene l’abbellimento degli oggetti del culto. Il bello è ammesso per lodare Dio, e belle devono essere stoffe e ricami per le cerimonie, gli oggetti liturgici. O i libri. Ma no all’idolatria e alle immagini di corpi, e a quanto può dare l’idea di erotismo. Occuparsi di arte, si, ma solo per guadagnarsi il pane.

L’artista ebreo non deve sentirsi un creatore, perché questa è prerogativa divina. Non si nega di operare per l’arte, ma vi sono priorità, ed il credente deve sempre tenere in primo piano la Torah, la Legge e gli insegnamenti. Questo, certo, era quanto di meno rinascimentale si potesse immaginare, ma toccava in sorte solo agli ebrei. Gli artisti cristiani, loro, intrapresero altre strade, anche con il contributo estetico del mondo ebraico.


I PROTAGONISTI

Da Sassetta a Carpaccio fino al ferrarese Mazzolino. I capolavori in mostra

La mostra del Meis tocca tante realtà. In Toscana, Stefano di Giovanni di Consolo detto Sassetta dipinse verso 1426, per l’Arte della Lana, un polittico proto-rinascimentale per la chiesa di S. Maria del Carmine di Siena, poi smembrato, del quale rimangono anche due elementi con i profeti Elia ed Eliseo su fondo oro, eredità medievale: recano cartigli con le scritte “Eliyahu” (Yahweh è il mio Dio) e «El Yasa» (con l’aiuto di Dio) e vengono dalla Pinacoteca Nazionale senese. Interessato al profumo esotico fu il ferrarese Ludovico Mazzolino, del quale risultano almeno 15 dipinti corredati da scritte ebraiche.

Questo pittore, grande ma purtroppo malnoto, condivide presso il pubblico la scarsa fortuna che tocca i settentrionali quattro-cinquecenteschi che non hanno una mano dolce, piacevole, tenera. Spesso bizzarri e corrucciati, senza melensaggine, non fanno al caso dei gusti odierni. Non vediamo spesso le loro opere riprodotte su magliette e bloc-notes, borse e spillette. Ma erano perfetti per i committenti del loro tempo, specie se sapevano offrire gemme di rarità. Per lo stesso tema con scritte ebraiche, la Disputa di Gesù nel tempio, Mazzolino eseguì intorno al 1520 alcune versioni ormai sparse per il mondo, e almeno due saranno in mostra. Ci delizierà poi la Natività della Vergine (1508) oggi all’Accademia Carrara di Bergamo, dove la scena è spiegata in ebraico, opera di Vittore Carpaccio; Carpaccio non è solo un piatto di carne cruda. Ancora, la gente ebraica è la gente del libro. Sarà esposto un codice di Moshe ben Maimon, noto come Maimonide, scritta nel 1190 per orientare coloro che avevano dubbi sulla comprensione della Legge alla luce del confronto con l’indirizzo aristotelico. È la Guida dei perplessi, un ponte tra culture diverse e come tale influente anche per i filosofi ed i teologi cristiani. Ma pure per gli Arabi, tanto che a Ferrara si presenterà un esemplare miniato della Guida datato 1349, tradotto appunto in arabo.

Stava per lasciare l’Italia ma è stato acquistato nel 2017 dallo Stato: fu di proprietà della famiglia Norsa del ramo di Mantova fin dal 1513.

Micaela Torboli

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