“Il museo, memoria culturale contro l’oblio e l’ignoranza”

“Mostrare la storia, coltivare la memoria”. Un tema importante, impegnativo, che per il Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah rappresenta una sfida fondante, di quelle che pongono continui interrogativi: quale valenza ha un museo di questo tipo? Che cosa deve rappresentare?

Domande che ieri sono riecheggiate nella Sala del Galata di Palazzo Altemps, sede del Museo Nazionale Romano, e delle quali l’Accademico dei Lincei, archeologo e storico dell’arte Salvatore Settis ha offerto la propria lettura.

La cornice di Piazza S. Apollinare è stata scelta perché il Museo Nazionale Romano, come ha spiegato il suo direttore, Daniela Porro, ha partecipato attivamente alla realizzazione del percorso espositivo “Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni”, da cui la lectio di Settis ha preso spunto: “Abbiamo prestato al MEIS alcuni reperti – lucerne che raffigurano la menorah, epitaffi, sigilli come quello di Theodora, coperchi di sarcofagi come quello di Artemidora e colli di anfora – provenienti da Palazzo Massimo alle Terme, dalle Terme di Diocleziano e dalla Crypta Balbi. E abbiamo permesso la riproduzione di calchi in 3D di diverse opere, quali il sarcofago della menorah, inamovibile per motivi conservativi, e il sarcofago di Faustina. Una collaborazione che, anche nello sviluppo futuro di questo importantissimo museo, saremo lieti di poter continuare”.

La stringente attualità del tema dell’incontro romano e del messaggio che il percorso espositivo del MEIS comunica è stata sottolineata dal presidente del Museo, Dario Disegni: “La nostra mostra inaugurale, oltre ad essere molto innovativa e a prefigurare il futuro MEIS, illustra come la minoranza ebraica fosse perfettamente integrata nella società italiana, ma non assimilata, perché gli ebrei hanno mantenuto saldamente e anzi coltivato la propria identità religiosa e culturale. Una dinamica che credo dovrebbe ispirare una riflessione sulle sorti dell’Italia, tanto più in un momento come questo, in cui si affacciano al nostro paese minoranze in fuga da guerre, barbarie e persecuzioni”.

A introdurre il professor Settis è intervenuta Simonetta Della Seta, direttore del MEIS: “Per la prima volta, in Italia, si cerca di dare vita e forma, in senso museale, a una cultura di parola e di pensiero – non di immagine – come quella ebraica. Ci siamo posti il problema di come raccontare ai contemporanei una vicenda con radici così antiche e in questo ci hanno aiutato molto i progettisti del percorso, adottando un allestimento di grande impatto, con momenti immersivi, che accolgono, accompagnano, spiegano e fanno vivere gli oggetti. Perché il museo, oggi, è sicuramente un luogo di esperienze e non solo di contemplazione. Ma come rendere leggibile una narrativa così articolata e complessa come quella ebraica in un mondo che sempre più semplifica i ragionamenti, la storia, la geografia? E partendo da ieri o dal capitolo più noto della seconda guerra mondiale e della Shoah? Abbiamo deciso di iniziare da lontano, ci è parso inevitabile. Però, quando parleremo di Shoah, come trattare questo trauma? È forse il MEIS il luogo giusto per fare finalmente i conti con la storia? Il racconto e l’approfondimento di quella tragica pagina può trasmettere messaggi più universali, come abbiamo l’ambizione di fare?”.
Domande consegnate a Salvatore Settis, che si è presentato al folto pubblico in sala come “un cittadino italiano, europeo che guarda a questi problemi con enorme preoccupazione per lo stato della nostra civiltà e per la barbarie che ci minaccia oggi più di ieri. Per ragionare sulla funzione e sul significato di un museo come il MEIS, vorrei partire dai musei come luoghi di memoria culturale. Ma la memoria culturale è una memoria collettiva? E come fa, in un tempo come il nostro, in cui siamo così restii a identificarci con le collettività e inclini a occuparci soltanto di noi stessi, a tradursi in qualcosa di più individuale, che chiami in causa la coscienza di ciascuno?”.

Alla risposta, Settis è arrivato passando per una citazione e per un fatto di cronaca. Nel suo saggio “Una certa idea di Europa”, George Steiner propone di definire l’Europa, in rapporto agli Stati Uniti e ad altre parti del mondo, sulla base di cinque parametri: è il luogo dove regnano i caffè, il dibattito intellettuale, in cui si ama riunirsi per discutere; è una cartografia camminata, perché il paesaggio europeo è stato modellato dalle mani e dai piedi; ha l’ossessione del passato, una ragnatela luminosa e insieme soffocante; ha un’acuta coscienza escatologica, un’onnipresente consapevolezza della fine, che s’incarna in un particolarissimo statuto e senso delle rovine; è un luogo di memoria, dominato dalla sovranità del ricordo. “Ecco perché – ha proseguito Settis – a differenza degli Stati Uniti, in Europa le strade sono intitolate a personaggi storici e il meticoloso restauro dei monumenti dopo una guerra o un terremoto è la prova di una fortissima volontà di ricordare. Ciò deriva anche dal fatto che l’Europa ha un’eredità complessa, doppia: Atene e Gerusalemme. Perciò deve negoziare sul piano morale, intellettuale ed esistenziale gli ideali, le pretese e le praxeis contrastanti della città di Socrate e di quella di Isaia”. Parametri che disegnano un’idea di Europa fondata sulla sua cultura, dove la diversità e le singole identità sono essenziali. Se le neghiamo, rifiutando con esse anche il principio dell’accoglienza, quell’Europa non può più esistere.

E qui Settis si è richiamato al fatto di cronaca: “Qualcuno, in Campidoglio, ha recentemente pensato di intitolare una strada a Giorgio Almirante e l’attuale ministro dell’Interno ci ha spiegato di non avere nulla in contrario, perché la storia non si processa, ma si ricorda. Sulla rivista “La difesa della razza”, di cui fu segretario di redazione per anni, Almirante ha scritto che “il razzismo ha da essere cibo di tutti e per tutti, deve essere quello del sangue che scorre nelle mie vene, quello della carne e dei muscoli. Altrimenti finiremo per fare il gioco dei meticci e degli ebrei che, come hanno potuto in troppi casi cambiare nome e confondersi con noi, così potranno fingere un mutamento di spirito e dirsi più italiani di noi, e riuscire a passare per tali”. Se questa non è una ragione per non dedicare una strada di qualsiasi città italiana ad Almirante – ha vibrato la propria condanna Settis –, non so più in che mondo siamo. E se il ministro dell’Interno può permettersi di dire ciò che ha detto, non so più in che mondo siamo”.

“Questo testo degli anni Quaranta è tornato sorprendentemente di attualità grazie alla distrazione di chi ha votato per l’intitolazione di una strada, salvo poi pentirsi e ammettere di non sapere bene chi fosse Almirante. Dunque, quando Steiner diceva che l’Europa sa ricordare, forse era troppo ottimista: talvolta si può usare il nome di una via non per ricordare, ma per generare l’oblio, per dimenticare i delitti del passato e così giustificare quelli del futuro e gli orrori del presente”. Memoria e oblio: attori centrali e complementari sul palcoscenico della storia. “Per questo il MEIS – ha riconosciuto Settis – è un progetto di straordinario interesse ed enorme rilevanza per l’oggi e per il domani, perché mira a esplorare l’incrocio tra memoria e oblio. Un crocevia essenziale per capire le dinamiche della vita sociale, politica e religiosa di una comunità eccezionalmente importante nella storia e nella cultura italiane”.
Sotto questo profilo, il titolo della mostra “Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni” ben condensa tre punti cruciali: la natura incrementale del MEIS, “a dimostrazione che quelli che, secondo Almirante, si dicono più italiani di noi, forse lo sono davvero. Poi, l’antichità della comunità ebraica italiana e, dunque, il particolare gioco di integrazione, adattamento e distinzione per preservare la propria tradizione. Infine, la cultura ebraica come componente essenziale della nostra storia nazionale. Oltre a un quarto significato: la storia ebraica come storia universale per via della Bibbia, e a Roma alla massima potenza. Perché da qui è partita la guerra giudaica, qui c’è l’arco di Tito, con la menorah che viene portata in trionfo, qui sono le violenze degli eserciti romani al tempo di Adriano. Noi non siamo, come alcuni vorrebbero credere, gli unici discendenti autenticati degli antichi Romani. Il privilegio che rivendicherei come italiano è, semmai, quello di essere straordinariamente meticci”.

Nella propria riflessione, Settis ha poi inserito un breve excursus storico sulle origini del museo, per fotografare le diverse fisionomie via via assunte da questa istituzione culturale, “tra le più giovani e fragili. Nel 1820 c’erano trenta musei ed erano tutti in Europa, mentre oggi sono almeno 60mila. Il museo nasce dalle collezioni di antichità, in particolare a Roma, dove nel Quattrocento i papi tornano da Avignone insieme alla corte pontificia e ai forestieri. I cittadini comuni che erano riusciti a conquistarsi un piccolo spazio nell’amministrazione comunale sono spiazzati e inventano la nuova categoria dei ‘romani naturali’: si cambiano il nome, si nobilitano e cominciano a costruire delle collezioni private, in quanto simbolo politico di identità. Le prime raccolte diventano gradualmente più grandi, poi regali, ma la maggior parte non erano aperte al pubblico. Il Capitolino è il primo museo al mondo ad aprire ai visitatori, nel 1734; nel 1743 è la volta degli Uffizi, nel 1753 tocca al British Museum, al Louvre nel 1793 e così via. E proprio il Louvre segna la vera svolta, perché sorge in epoca rivoluzionaria come museo del popolo e per il popolo”.

Adesso i musei sono tantissimi e differenziati, e hanno modificato funzione, scopo, contenuto, pubblico. C’è chi (non Settis) vede una frattura insanabile tra quelli di arte contemporanea e quelli di arte antica, chi insiste sulle affinità, non solo metaforiche, tra il museo e lo shopping center, chi li considera un luogo di entertainment o meglio di edutainment. Ma non possono servire anche come depositi, custodi, stimolatori della memoria culturale, medicina contro l’oblio?
“Narrare la storia si può – è il presupposto da cui parte Settis –: lo dimostrano la Bibbia e autori come Erodoto, Tucidide, fino agli storici romani. Mostrare la storia, però, non è come narrarla. Presuppone l’eloquenza degli oggetti della quotidianità e la memoria delle cose, inseriti in un contesto narrativo che ne tramette la verità: è la grande lezione dell’antiquaria dal Quattro al Seicento, poi diventata archeologia. Nel Cinquecento si era avviata una discussione sulla forza probatoria: che cosa dimostra la storia maggiormente, il racconto o l’oggetto? E si parlava dell’antiquaria della penna, del racconto narrato, in contrapposizione a quella del pennello, dell’immagine”.

Ma quale memoria culturale potrà sopravvivere nell’Europa multiculturale in cui viviamo? “Le politiche dell’accoglienza, che io raccomando e propugno, porteranno a un Europa sempre più multiculturale. E in un simile contesto, la memoria culturale potrà essere una memoria condivisa per cittadini di origine così diversa? Come conservarla? A quali narrazioni, oggetti, monumenti e documenti la si potrà ancorare o potrà fare appello? Da come affrontiamo questa domanda dipende il nostro approccio alla memoria culturale italiana, anche riguardo alla sua componente ebraica”. Richiamandosi a Claude Lévi-Strauss, Settis ha ripreso la distinzione proposta dall’antropologo fra le società calde, che favoriscono il rinnovamento mediante lo sviluppo tecnologico, e le società fredde, che hanno elaborato una saggezza particolare, con cui riescono a resistere a ogni mutamento strutturale. La memoria culturale nelle società fredde sarebbe statica, mentre in quelle calde, di cui l’esempio massimo è la cultura europea e occidentale, si fonderebbe sulla storia, registrando e favorendo i cambiamenti come un dispositivo dinamico. Classificazione contestata dall’egittologo Jan Assman, secondo il quale nessuna società appartiene in toto al versante caldo o a quello freddo, ma ciascuna mescola in un modo ad essa peculiare le due dimensioni, con combinazioni sempre diverse.

E come contrastare, anche per raggiungere un pubblico più contemporaneo, la cosiddetta “retorica museale” o del piedistallo, che porta a venerare le sculture come oggetti supremi dai quali lasciarsi passivamente ispirare? Su questo punto, Settis si è rivolto allo scrittore turco Orhan Pamuk, che nel suo “Modesto manifesto per i musei” si chiedeva se essi vadano pensati come isole dentro le città oppure come un’estensione e un’intensificazione della dimensione urbana, se debbano raccontare storie o rappresentare qualcosa: credenze? Identità culturale? L’autorità dello stato? L’egemonia nazionale? Pamuk si situa all’incrocio di due sviluppi mondiali: la recente diffusione dei musei in moltissimi paesi che fino a pochi decenni fa ne erano privi e la delegittimazione crescente dei musei imperiali, come il British e il Louvre, nati per accogliere la storia mondiale dal punto di vista privilegiato della classe dirigente. «La transizione dai palazzi reali ai musei nazionali – le parole di Pamuk – è identica a quella dall’epica al romanzo. L’epica è come un palazzo e racconta le imprese eroiche degli antichi re che ci vivevano. I musei nazionali di oggi dovrebbero essere, invece, come romanzi, racconti, ma non lo sono: è finito il tempo dell’epica, eppure nei musei continua, vi si raccontano ancora epiche. La misura del successo di un museo dovrebbe essere la sua capacità non di rappresentare uno stato, una nazione, un’impresa, ma di rivelare gli esseri umani che hanno sofferto sotto l’oppressione per centinaia di anni. Perciò il futuro dei musei è nelle nostre case». E qui il cerchio si chiude, riportando ai romani naturali che raccoglievano antichità nelle proprie abitazioni. Spinti non dal desiderio di preservare traccia del passato, ma dal bisogno di costruire per loro stessi un nuovo futuro.

Come riferisce Settis, un altro bersaglio di Pamuk è il pregiudizio secondo cui gli oggetti d’arte devono stare al centro del discorso museale: “Un posto che spetta, invece, alla narrazione offerta dal contesto archeologico, dalla vita quotidiana, dalla storia di una comunità, dagli oggetti d’uso che ci collegano alla nostra memoria, che suscitano emozioni e ci consentono di identificarci con esseri umani come noi, non con i sovrani. O di riconoscere nei sovrani degli esseri umani come noi. In questo senso, anche una cultura relativamente povera di immagini quale è quella ebraica può innescare un percorso incredibilmente importante”. Un museo che emozioni, coinvolga, convochi il visitatore nel proprio discorso. Perché «sembra che non ci sia alcun modo in cui possiamo scoprire il segreto delle cose senza un colpo al cuore» – scrive Pamuk.

Queste nuove frontiere della museologia sono tra le possibili risposte a quella che la storica dell’arte Claire Bishop ha chiamato la “museologia radicale”, ovvero considerare il museo come un luogo di riscrittura politica della storia. “E il museo lo è oggi più che mai – ha osservato Settis –, un po’ come lo erano le collezioni dei romani naturali nel 1450. Una nuova radicalizzazione, dovuta al concetto di trauma e alla contemporaneità dei traumi che viviamo”.
Traumi che richiamano inesorabilmente il capitolo sulla Shoah: “Di fronte al quale i pericoli sono quelli additati da Saul Friedländer, cioè la ritualizzazione e l’amnesia. Ritualizzare, ridurre a cerimonia il ricordo è una forma di memoria o di oblio? Il rapporto fra memoria e storia è controverso. Per qualcuno la memoria dei testimoni è emotiva e perciò non vale tanto, perché un approccio più razionale richiede di distanziarsi. Mentre io condivido le osservazioni di Friedländer: «Lo storico ha la responsabilità di accettare i dati sulla base dei documenti, ma il suo distacco emotivo davanti a traumi di straordinaria portata come la Shoah non può eludere il coinvolgimento. Di fronte a simili fenomeni dobbiamo saper comunicare non la neutralità dell’evento storico, ma la sua terribilità». E questo – ha concluso Settis – deve essere anche il messaggio del museo. Ecco perché credo che il MEIS meriti un’attenzione specialissima da parte di tutti gli italiani: per costruire la propria narrazione, che non può prescindere dall’abisso di quel crimine nazi-fascista, ha scelto di parlare della Shoah piano, partendo da duemiladuecento anni fa, con l’obiettività dello storico, ma senza neutralità. Di arrivare alla Shoah come a un momento particolarissimo di questa lunga e bellissima storia degli ebrei in Italia, componente inscindibile della nostra storia nazionale in cui riconoscerci tutti, ebrei e non ebrei”.

Daniela Modonesi

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