Il ciak di Gitai: «La mia Doña Grazia, ebrea orgogliosa e libera»
Stefano Lolli
FERRARA
«È STATA Isabelle Huppert a spingermi, quasi a pungolarmi perché lavorassimo assieme a questo film, che parla di una donna coraggiosa, capace di opporsi ai poteri dominanti, e usare il proprio potere economico per praticare l’uguaglianza». Il regista israeliano Amos Gitai sceglie non a caso il Museo Nazionale dell’Ebraismo e della Shoah, per annunciare il suo nuovo film.
Figura centrale è Doña Gracia Nasi, che nel Rinascimento arrivò alla corte degli Estensi e, in forza anche della sua ricchezza, favorì l’arrivo a Ferrara di un gran numero di ebrei sefarditi.
«Questa è la storia, emblematica e potente di una donna che non accettava il diktat del Papa, dell’Inquisizione e della comunità in cui viveva, mascherandosi con il nome di Beatriz de Luna. Solo a Ferrara potè ritrovare se stessa, la propria identità di ebrea, una libertà che ha provato a condividere con il suo popolo».
Lei è regista di film attualissimi, pensiamo al più recente su Isaac Rabin, e incentrati sulla politica e la vita sociale del nostro tempo.
«Questo film non sarà una fuga nel passato, un’opera romantica o didascalica (Gitai sorride, ndr): cinquecento anni fa il mondo islamico era illuminato, e proprio Sulimano il Magnifico, grazie all’influenza di Doña Gracia, concesse di fatto il primo passo per la costruzione dello Stato d’Israele. All’epoca, l’Europa era molto retrograda. Adesso è tutto l’opposto, e io, che sono un collezionista di contraddizioni, non potevo non farmi suggestionare da questa vicenda».
Un’opera che parlerà, per rovesciamenti, di antisemitismo e intolleranza?
«La modernità sta proprio in questo, nel fatto che oggi questi sentimenti crescono e diventano movimenti politici strutturati. Perciò Doña Gracia diventa, inevitabilmente, un modello, la sua determinazione di contrastare e spezzare la discriminazione, che fosse religiosa o sociale».
Protagonista sarà dunque la grande attrice francese.
«Isabelle, quattro anni fa, è venuta in Israele coi suoi tre figli, è andata sul lago di Tiberiade, il luogo dove di fatto, al termine della battaglia che ha combattuto tutta la vita, Doña Gracia ha compiuto la sua missione. Da lì è partita la nostra idea di approfondire la sua storia, e di farne un film».
A quando le riprese?
«Spero a breve, con Carlo Cresta-Dina stiamo lavorando alla produzione, ho contattato Dante Ferretti perché il suo lavoro di scenografo mi sembra imprescindibile. Conto di girare gran parte del film a Cinecittà, ma adesso sono qui, a Ferrara, per riempire gli occhi e la mente di suggestioni, di immagini e di luoghi: prima che regista, mi considero un architetto, è impossibile non partire anche da una contaminazione fisica con gli ambienti in cui si è alimentata una storia».
Una storia, inevitabilmente, che richiama all’antisemitismo. Un tema, anche questo, purtroppo attualissimo.
«Vivo, come molti, un’enorme preoccupazione. Dentro e fuori dal mio Paese, Israele, e in Europa. Temo che la democrazia sia in qualche modo in pericolo, e credo che la sofferenza che il popolo ebraico ha subito, e che ancora subisce, non possa legittimare la sofferenza di altre persone».