EBREI & ITALIA. VIAGGIO NEI SECOLI
di STEFANO LOLLI
FERRARA – LA STORIA, scrive Marc Bloch, «sono gli uomini nel tempo». Ecco allora il nuovo Museo nazionale dell’Ebraismo italiano e della Shoah, proporsi come riassunto di un’identità, religiosa e innanzitutto sociale, che in un viaggio di oltre duemila anni afferma, attraverso fasti e temperie, la volontà di integrarsi, rifuggendo dall’assimilazione. La grande mostra inaugurata ieri dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella e dal ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini, offre un riassunto dei primi mille anni; dal traumatico approdo in Italia, schiavi degli imperatori Flavi, alla diffusione nell’Italia settentrionale, ma soprattutto, con una ricchezza culturale straordinaria, in Puglia, in Sicilia, in Calabria. In duecento oggetti, anche i più minuti come frammenti di lanterne, epigrafi strappate all’anonimato, monete, e preziosi manoscritti, incunaboli e ‘cinquecentine’, si dipanano le trame di una presenza identitaria, e al tempo stesso capace di permearsi. «Se c’è un valore, in questa mostra – afferma Daniele Jalla, curatore assieme ad Anna Foa e Giancarlo Lacerenza –, è la capacità di affermare il riconoscimento dell’altro e il rispetto reciproco».
NON È LA MORALE della mostra, «perché le mostre non hanno morale», aggiunge Jalla, ma è l’intento che motiva la nascita stessa del Meis: nato nel 2003 da una legge ‘bipartisan’ («Ottenere la firma di tutti i capigruppo su un decreto legge, è merce rarissima per il nostro Parlamento», sorride il ministro Franceschini), finanziato con uno stanziamento che di qui al 2020 arriverà a 50 milioni di euro, è insediato nell’ex carcere cittadino. Una scelta che, quindici anni fa, poteva sconcertare: «Era un luogo di segregazione, duro per le anime come erano dure le pietre – ricorda il presidente del Meis Dario Disegni –, è straordinario ritrovarlo, oggi, come luogo simbolo dell’inclusione e del confronto». Oltre che come punta avanzata di un turismo culturale che, con simili investimenti, punta a conquistare convintamente il mercato internazionale.
Ferrara, nell’ebraismo, ha del resto una delle proprie cifre: nel Rinascimento furono gli Estensi ad accogliere gli ebrei sefarditi in fuga dalla Spagna, e patrocinare la nascita di una comunità che, nei secoli, ha mantenuto un ruolo vivo pur nell’esiguità dei numeri.
Ferrara ebraica è quella descritta da Giorgio Bassani, con tale potenza evocativa da spingere ancora oggi i turisti a chiedere, ai passanti, dove si trovi il ‘giardino dei Finzi Contini’.
NESSUN ‘selfie’ sul campo da tennis di Micol, ma le suggestioni, anche visive, sono comunque potenti; la mostra, allestita con arguzia da Giovanni Tortelli e Roberto Frassoni, offre molto agli occhi, oltre che all’animo e al cuore. Si parte con un filmato multimediale («Con gli occhi degli ebrei italiani») che amplia l’orizzonte temporale rispetto all’esposizione principale, accompagnando il visitatore sino all’epoca contemporanea. Si entra poi nelle ricostruzioni a grandezza naturale dell’arco di Tito, si può sfiorare il calco del fregio che riproduce la deportazione dei primi ebrei a Roma, ci si addentra, come in un labirinto, tra storia e mistica, poesia e vita quotidiana. Un viaggio, evocativo come quello di Beniamino da Tudela, che tra il 1159 e il 1179 l’ebreo navarrese compì dalla Spagna alla Terrasanta, documentando nel Sefer massa‘ot le comunità con cui entra in relazione in Italia. Al visitatore moderno non servono calzari robusti e una bisaccia capiente, ma la disponibilità a immergersi in questo «racconto di come si vive e si convive – spiega Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane –, comprendendo i valori dell’ebraismo e, in fondo, quelli di tutte le religioni. Mostra, e museo, ci aiutano a riflettere su come l’inclusione sia l’arma più potente per sconfiggere le paure, e rischiarare il buio che spesso sembra destinato ad avvolgerci nuovamente».