Ebraismo e Rinascimento, un incontro oltre il ghetto
MAURIZIO CECCHETTI
Ferrara
Ancora fra fine Ottocento e inizi Novecento, il dipinto era intitolato Gesù Cristo in croce e attribuito a Marco Basaiti, come si legge nella didascalia a una foto presente nell’archivio della Fondazione Federico Zeri; la scheda ricorda che all’epoca era di proprietà di una collezione fiorentina, mentre in anni recenti è entrato nel patrimonio della banca Cariprato che dal 2010 è stata incorporata dalla Banca Popolare di Vicenza. La Crocifissione, restituita poi a Giovanni Bellini, avrebbe a mio parere ben figurato nella raffinata esposizione ferrarese “Il Rinascimento parla ebraico”, allestita dal Meis, il Museo nazionale dell’ebraismo italiano e della Shoah, a cura di Giulio Busi e Silvana Greco (il catalogo edito da Silvana è uno strumento assai utile per inquadrare da vari punti di vista – storico, religioso, simbolico, antropologico, letterario – un argomento al quale Cecil Roth aveva già sessant’anni fa dedicato il saggio The Jews in the Renaissance nell’ottica di una proficua convivenza fra minoranza ebrea e maggioranza cristiana).
Il dipinto di Bellini, che è da considerarsi un’opera più unica che rara nel soggetto, si lega assai bene al tentativo di vedere il rapporto con l’ebraismo al di là degli stereotipi antigiudaici. Lo skyline di Vicenza (con qualche integrazione architettonica nel segno della Gerusalemme celeste) ricade quasi subito sullo sfondo mentre emerge con problematica evidenza il tema storico e teologico che non figura né prima né dopo il Rinascimento in altre opere analoghe. L’estensione delle braccia del Cristo sembrano voler abbracciare e dare la misura a tutto lo spazio. E dietro le croci, la città, coi suoi monumenti civili e religiosi, le abitazioni e gli altri edifici che disegnano una realtà operosa, gente che lavora, macine e mulini, buoi e asini, ma anche un mondo popolato da animali e con una ricca varietà floreale e naturale la cui funzione è certamente simbolica.
Ma ecco quella strana collocazione: il teschio di Adamo, ai piedi della croce, la bocca semiaperta, come di un macabro sogghigno, e altri teschi che mangiano polvere. Certamente una sfumatura ironica, si può insinuare nella nostra mente. Si è anche interpretata quella crocifissione in un cimitero ebraico come l’ovvia conclusione di una storia fatta in gran parte da ebrei, compreso Cristo, che a quella realtà apparteneva di nascita. È chiaro che Bellini attribuisce a ogni cosa un significato che sembra porre Cristo come centro della storia e novità così attesa dagli ebrei che non la riconobbero. Sarebbe una riedizione dell’accusa di aver dato un seguito sterile all’eredità delle Sacre Scritture.
Da Vicenza, pur presenti fin dal XIV secolo, gli ebrei vennero cacciati nel 1486, e fu allora che riaffiorarono gli stereotipi sul deicidio, sulle pratiche sacrificali contro i cristiani, e in quel contesto il caso di Simonino fu tra quelli più utilizzati nella polemica antigiudaica. A Ferrara è esposto il celebre gruppo ligneo del “Martirio” di Simonino da Trento, della bottega di Daniel Mauch, il cui culto di santità durò fino al 1965: si riferisce appunto alla falsa accusa rivolta agli ebrei di Trento di aver ucciso nel 1475, a Pasqua, Simone, un bambinetto figlio di un conciapelle cristiano, e di averne usato il corpo per un rito macabro in sinagoga. Quindici ebrei vennero riconosciuti colpevoli e giustiziati e Simonino fu dichiarato martire. Il fatto è che persino Sisto IV non era convinto e inviò il suo messo a indagare, ma il principe-vescovo di Trento s’impose e l’inviato del papa se ne tornò a Roma con tutti i suoi dubbi, scrisse però una relazione dove si diceva convinto dell’innocenza degli ebrei. In quel gruppo plastico, di incredibile e grottesca fisiognomica, salta all’occhio immediatamente il pregiudizio negativo che ispira la raffigurazione dei sacrificatori ebrei con naso ricurvo, caratteri bestiali (si veda la curiosa analogia somatica fra l’uomo barbuto all’estrema sinistra e il cane ai suoi piedi, oppure i volti ossessi e demoniaci di figure come quella che sta strangolando il bambino con un drappo o le due sulla destra: prende forma qui l’iconografia del pregiudizio, e Simonino diventa una sorta di Alter Christus: in mostra, c’è anche la Passio beati Simonis Tridentini del medico-umanista e zelante propagandista Giovanni Tiberino).
Giacomo Todeschini in catalogo ripercorre la polemica antigiudaica derivata dalla lotta della Chiesa contro l’usura (questo già agli inizi del XIV secolo) e spiega che l’usura in epoca medioevale era un’accusa rivolta anzitutto dal versante spirituale: l’avarizia ebraica per gli apologeti cristiani medioevali era riferita alla incapacità degli ebrei di comprendere la ricchezza custodita nelle Sacre Scritture; per questi teologi essi erano «avari tesaurizzatori di un patrimonio che, nelle loro mani, si trasformava in materia inutile e sterile». Con la nascita per iniziativa dei francescani dei Monti di Pietà, l’accusa di usura per la richiesta di interessi sul denaro prestato spostò il significato e ne fece il cavallo di battaglia dell’antigiudaismo nei secoli successivi.
Scrive Giulio Busi che lo scopo della mostra è far vedere che «gli ebrei, durante il Rinascimento, c’erano» e fra il XIV e il XV secolo furono sempre più presenti nella «turbinosa vita economica dell’Italia». Proprio quando nel 1492 gli ebrei vennero cacciati dalla Spagna e dai territori controllati dagli spagnoli, Napoli per esempio (di pochi anni dopo è il decreto di Ercole I d’Este che obbliga gli ebrei a portare un segno distintivo giallo, come si dice nella minuta conservata all’Archivio di Modena, il segno doveva essere una “O”), la pianura padana fiorì di mille iniziative economiche e sociali promosse dagli ebrei. Tutto, con accordi ufficiali col mondo degli imprenditori, delle autorità religiose e dei banchieri cristiani. Oltre ai documenti della burocrazia e della vita quotidiana, questo si accompagna alla diffusione di testi a stampa e opere miniate. In mostra troviamo carte che attestano la nascita del ghetto a Venezia nel 1516, ma anche libri religiosi, come il salterio ebraico di Parma, un manoscritto miniato con le norme giuridiche del Talmud, lo splendido armadio sacro di Modena che conservava i rotoli della Torah, e tra questi è esposto quello in pergamena (Sefer Torah) appartenuto alla comunità ebraica di Vercelli; ancora da segnalare, lo splendido codice miniato della Guida dei perplessi di Maimonide del 1349, una Bibbia ebraica del 1287, ma anche quella appartenuta all’ebraista cristiano Giannozzo Manetti, libri di preghiera quotidiana (Siddur del 1490), trattati cabbalistici tradotti e copiati per Pico della Mirandola da Flavio Mitridate, trattati che diventeranno una delle fonti d’ispirazione dell’umanesimo anche cristiano («l’hebraica veritas è parte della rinascita dell’antico e dell’annuncio della fede cristiana», scrive Busi); e poi, alberi sefirotici e alfabeti mistici, fino al Pentateuco per immagini del XVI secolo. Per quanto riguarda la vita sociale: diplomi di laurea, un contratto di una scuola di ballo ebraico-cristiana, liste dei debitori di banchieri (anche una splendida cassaforte lignea).
Questi documenti, fanno capire che l’ebraismo (e la sua lingua) rientrano ormai alla fine del Quattrocento nell’ideale di erudizione di molti umanisti («Il curriculum degli studi non è completo senza una robusta presenza di cose ebraiche» nota ancora Busi, che ricorda anche come Federico da Montefeltro si sia appropriato di molti tomi ebraici per la sua biblioteca urbinate). Nell’ambito visivo, il pittore che più utilizza l’innesto iconografico di cose ebraiche è Ludovico Mazzolino di cui sono esposte le versioni della Disputa di Gesù coi dottori al Tempio che al vertice, iscritta in un tondo, presenta una scritta in ebraico con una frase del Levitico. Una storia, dunque, quella descritta in questa mostra, che è prova esplicita contraria alla cultura del ghetto nella quale furono confinati, idealmente e materialmente, gli ebrei.