Al Meis, la lezione di Vera
Gliel’hanno uccisa il 25 giugno del 1976, appena diciottenne, eppure Franca è sempre con lei. Il suo nome è stampato a caratteri cubitali sul fazzoletto bianco che incornicia il caschetto di Vera, quasi un elmetto contro i colpi di un destino sciagurato. E sulla grande spilla che la signora Vigevani Jarach si è appuntata, non a caso, sul cuore c’è il viso dolce della figlia, che sorride come chi è pronto a sfidare il mondo perché ha tutta la vita davanti e non sa di essere, invece, condannato a morte. Forse è anche per questo che una donna così duramente messa alla prova dalla storia riesce a raccontare – perciò a rivivere ogni volta – con passo misurato, preciso e mai rassegnato l’orrore che le è toccato in sorte, come se quel dolore fosse la sua linfa e i novant’anni che sta per compiere non le pesassero più di tanto.
Un paio di volte all’anno, Vera trova la forza di portare la propria testimonianza al di fuori dell’Argentina e ieri ha fatto tappa a Ferrara, al Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah, per visitare la mostra sui primi mille anni di presenza ebraica in Italia e dialogare davanti a un folto pubblico con Anna Maria Quarzi, presidente dell’Istituto di Storia Contemporanea, e Simonetta Della Seta, direttore del Meis.
“Il nostro percorso espositivo – ha introdotto Della Seta – comincia con il viaggio di Abramo, che è sia geografico che interiore, e trovo che, in questo senso, Vera sia profondamente abramitica. Da lei abbiamo tantissimo da imparare, per il passato e per il presente. E vedere qui tanti giovani credo dia un senso profondo alla sua missione”.
“Per i temi che affronta, questo museo è forse destinato a diventare il più importante della città e non potevo mancare”, ha chiarito subito Vera Vigevani Jarach, ebrea milanese che a dieci anni, con l’emanazione delle leggi razziali, si vide costretta a fuggire dall’Italia insieme alla famiglia: “La mia maestra venne a casa nostra per comunicarci che non avrei più potuto andare a scuola. Ci rimasi male e pensai che fosse un’ingiustizia. Ma dopo pochi giorni, quando il preside dell’istituto di via della Spiga mise alcune aule a disposizione di noi bambini ebrei, conobbi anche la giustizia. Non avevo paura, ma capivo e provai la sensazione di una specie di terremoto imminente. Anche mia madre Lidia, che aiutava il rabbino Gustavo Castelbolognesi ad assistere gli ebrei rifugiati, comprese che stava per succedere qualcosa di terribile e persuase mio padre a espatriare. Decisero di salpare per l’Argentina, soprattutto perché lo spagnolo era facile da imparare, e ottennero il visto turistico. Ricordo che mentre la nave si allontanava dal porto di Genova, il 2 marzo 1939, mio papà cominciò a gridare “Viva l’Italia!”. Perché erano patrioti, i nostri ebrei italiani, avevano fatto la guerra e infatti lui era mutilato”.
L’unico a sottrarsi all’appello è il nonno Ettore Felice Camerino: “Era vedovo, molto legato alle sue abitudini e al negozio che aveva a Milano. Non volle partire e, quando più tardi provò a passare in Svizzera, fu catturato e deportato ad Auschwitz. Chi si era fatto pagare per aiutarlo lo tradì. Mia mamma era sicura che si trattasse di tedeschi, invece furono due italiani”.
Parte la nuova vita a Buenos Aires ed è tutta in salita: “Per farmi finire le elementari, mio padre commise l’errore di iscrivermi a una delle cinque scuole italiane della città, che però era fascista! Si studiava su libri fascisti, ci obbligavano ad ascoltare i discorsi di Mussolini alla radio e qualche volta ho pianto al pensiero di quanti soldati italiani sarebbero morti. Tutte le sere, poi, i miei genitori compravano un giornale con le notizie di guerra e percepivo la preoccupazione per i parenti lontani. Tra noi parlavamo e c’era la corrispondenza con chi era rimasto in Italia o scappato in Svizzera. Provavamo una forte nostalgia dei paesaggi, delle usanze, della cucina che avevamo dovuto lasciare ed eravamo motivati a mantenere viva la nostra cultura. Gli italiani convinti che Mussolini avesse fatto grandi cose erano tanti anche là. Ma qualche famiglia con un po’ di testa l’abbiamo trovata e, in generale, l’Argentina e gli ebrei argentini ci hanno accolti bene, con generosità e comprensione”.
Per varcare il confine sudamericano, c’era solo un’alternativa al visto turistico: un contratto con l’università, che aveva bisogno di intellettuali ebrei di prestigio, quasi tutti poi rientrati in Italia, a guerra terminata. “Quei professori hanno lasciato un’eredità preziosa e c’è ancora tanta riconoscenza verso di loro. Anche mio padre voleva tornare, ma non eravamo d’accordo né io, che ero fidanzata, né mia sorella, che era già sposata e con un figlio”. Malgrado il paese, nel frattempo, fosse molto cambiato: “Quando siamo arrivati in Argentina, c’era un governo democratico, poi è arrivata la stagione dei colpi di stato. E abbiamo capito che la democrazia, benché imperfetta, è sempre il miglior modo per convivere, a patto che i cittadini partecipino. Per questo, specie ai ragazzi che incontro nelle scuole ripeto sempre di stare attenti a ciò che succede e di agire. Con intelligenza e pacificamente, ma mai più in silenzio”.
Un silenzio come quello delle autorità e della stampa dopo il golpe di Videla: “Fu tenuto nascosto – prosegue Vera –, della dittatura e del governo de facto non parlava nessuno. Cominciarono indisturbati i sequestri di moltissimi studenti, avvocati, psicologi, sociologi. I militari giravano su Ford Falcon verdi, dai cui finestrini sbucavano i mitra. A volte sbarravano un quartiere, entravano nelle case, derubavano. E se non trovavano il loro bersaglio, prendevano altre persone, a caso. Abbiamo iniziato a sapere molto presto che cosa stava succedendo ai nostri figli, perché periodicamente veniva liberata una persona, in modo che potesse riferire delle torture. E a sentire quei racconti, l’immaginazione correva in modo atroce, perché ti metteva davanti agli occhi il calvario, roba da perdere la ragione. Infatti ci chiamavano ‘le pazze’, ma non lo siamo mai state. E nemmeno eroine: solo madri resistenti. Ora come allora, anche se siamo quasi tutte novantenni”.
In quel “siamo” sono racchiuse le facce, la disperazione, le lotte delle Madri di Plaza de Mayo, che non più di una volta al mese avevano facoltà di chiedere ai militari notizie dei propri figli, magari per ricevere risposte umilianti come: “Faccia finta che sua figlia sia in vacanza”. Oppure: “Franca è bella? Allora è finita nella tratta”. Per non parlare delle porte sbarrate all’ambasciata italiana, allora guidata da Enrico Carrara, o dei giornali che, a eccezione di Le Monde, avevano preferito l’omertà: “L’influenza di Licio Gelli, cui l’Argentina aveva concesso diversi passaporti falsi, aveva messo il bavaglio ai giornali. A un certo punto, Giangiacomo Foà, corrispondente del Corriere della Sera, si sentì dire che per lui l’Argentina non esisteva più e fu trasferito in Brasile. Solo Sandro Pertini levò la propria voce, dicendosi indignato per quanto stava accadendo”.
Qualcosa cominciò a uscire a suon di lettere, di segnalazioni ad Amnesty International, con le prime manifestazioni in una piazza sotto assedio, girando a braccetto, senza mai fermarsi, per non rischiare l’arresto. E poi con i mondiali di calcio del ’78: “Eravamo diventate un’attrazione folcloristica e approfittammo di questo improvviso interesse. Ma ho comunque dovuto aspettare vent’anni prima di conoscere la verità su Franca. Una ragazza meravigliosa, che avrebbe potuto arricchire se stessa e gli altri. Appassionata, riflessiva, preoccupata del mondo in cui viveva e che sognava di poter migliorare, brillante, impegnata”. A 13 anni già convocava le assemblee per difendere il preside, che era stato minacciato, e occupare la scuola. “Io e mio marito l’abbiamo sempre rispettata e ancora la interrogo idealmente su certe questioni. Ha avuto molti amici e due fidanzati, entrambi ebrei. Non siamo mai stati religiosi, ma le abbiamo trasmesso l’amore per la storia, la consapevolezza di ciò che era successo al nonno, delle leggi razziali, di Terezin, l’importanza dell’identità”. Rimase meno di un mese all’ESMA, la scuola per allievi della Marina militare argentina, dove furono detenute clandestinamente 5.000 persone. Poi ci fu bisogno di spazio per nuovi prigionieri e Franca, insieme a migliaia di altri ragazzi, venne sedata, caricata sugli aerei per il volo della morte e gettata in mare.
Per il regime di Videla, era solo un numero, un po’ come quello che a suo nonno Ettore era stato tatuato sul braccio dai nazisti. E come il nonno, nemmeno Franca ha potuto avere una tomba.
“Un giorno si spera e il giorno dopo ci si dispera. E il rischio – ha continuato Vera – è di cadere in forme di paralisi, brutte malattie, depressioni. Noi madri siamo state fortunate: ci ha unite il bisogno di agire immediatamente, di fare qualsiasi cosa pur di giungere alla verità. La giustizia in parte è arrivata, perché ci sono stati un maxiprocesso, le condanne, gli ergastoli. Ma qualcuno è già stato rimesso in libertà, altri potrebbero vedere la pena dimezzata e ad altri ancora, come Miguel Etchecolatz, sono stati concessi i domiciliari al caldo, a Mar del Plata. Inoltre, si è aggiunto il negazionismo: quando Angela Merkel venne in visita a Buenos Aires, al Parco della Memoria, mi avvicinai a lei con il cartello “Sono 30.000” e le dissi che solo le forze armate sanno se i desaparecidos sono stati di più. E aggiunsi che l’ex ministro della cultura Darío Lopérfido, notoriamente negazionista, era stato mandato a Berlino come inviato di cultura argentina. Quando mi vide gettare i fiori in quella grande tomba che è il Rio de la Plata, la Merkel mi chiese commossa se avevo altri figli. Ebbene, il giorno dopo, sulla sua rete di informazione comparve la news: “In Argentina, 30.000 desaparecidos e mai più il silenzio”, ripresa dal quotidiano Página 12 col titolo “La lección de Vera”.
Ed eccola, la sua lezione: “Se rimani indifferente davanti a queste tragedie, è gravissimo per te, per la società, per tutti. L’altra sera ho parlato con Liliana Segre e siamo entrambe molto preoccupate per i rigurgiti fascisti e antisemiti, per le nuove forme di razzismo che stanno emergendo un po’ ovunque, per i genocidi dei migranti. Tuttavia la speranza non deve mai morire. Primo Levi mi disse che la storia la scrivono i vincitori, ma io credo che anche i vincitori, a un certo punto, possano perdere”.
Daniela Modonesi