Al Meis il Rinascimento parla ebraico
Inaugurata ieri la nuova mostra del Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah, “Il Rinascimento parla ebraico”. “È un grande privilegio costruire questo luogo giorno dopo giorno – ha detto Simonetta Della Seta, direttore del MEIS, durante l’incontro con la stampa – e l’apertura di questo ulteriore segmento, che racconta qualcosa di molto originale, dimostra che il nostro museo c’è, è dinamico e può offrire alla cultura italiana un contributo concreto. È stato un onore e un privilegio anche avere come interlocutori due studiosi del calibro di Giulio Busi e di Silvana Greco, curatori del percorso, e aver potuto contare sulla fantastica scenografia curata dallo Studio GTRF Giovanni Tortelli e Roberto Frassoni, e sui lavori multimediali di Umberto Saraceni, che hanno valorizzato moltissimo il concept elaborato dai curatori”.
Come ha sottolineato Dario Disegni, presidente del MEIS, “fino a pochi mesi fa, il Cda ha vissuto ore di angoscia, perché era difficile reperire le risorse necessarie a realizzare una mostra del valore e dell’importanza di quella che oggi lanciamo. È stata una lotta contro il tempo e, se ce l’abbiamo fatta, è stato anche grazie alla generosità degli sponsor – su tutti Intesa Sanpaolo – e di alcuni donatori, a partire dall’ambasciatore Giulio Prigioni. Il senso dell’esposizione – ha proseguito Disegni – è quello di dare continuità alla mission istituzionale del MEIS, ovvero far conoscere la storia degli ebrei italiani. Nel Rinascimento gli ebrei sono stati presenti, sia come attivi protagonisti della società, con apporti assolutamente inediti, sia perché la loro lingua e cultura erano ben note ad alcuni dei maggiori artisti dell’epoca”.
Un concetto approfondito dal curatore Giulio Busi, che ha chiarito come la mostra punti a dimostrare una tesi ben precisa: “Per la prima volta, abbiamo raccolto opere di carattere letterario, archivistico e artistico accomunate dalla presenza della lingua ebraica e dal fatto di ricadere entro coordinate storiche definite, che vanno dagli antecedenti trecenteschi del Rinascimento fino al clou del periodo tra il 1470 e il 1530. E la tesi è duplice: senza il Rinascimento, l’ebraismo italiano non sarebbe lo straordinario fenomeno culturale, storico e sociale che conosciamo; e senza l’apporto della minoranza ebraica, il Rinascimento italiano non sarebbe ciò che è stato. Perché gli ebrei hanno una tradizione antica, sono presenti nella Penisola da oltre duemila anni, hanno una funzione economica importante, sono utili e ricercati, presenti nelle professioni, vivono ancora insieme agli altri e non relegati nei ghetti, e sono ammessi – Ferrara ne è un esempio – negli ambienti di corte”.
E ciò vale anche per le donne, come ha specificato l’altra curatrice, Silvana Greco: “La mostra vuole decostruire lo stereotipo patriarcale, mostrando come tante esponenti femminili del mondo ebraico fossero attive nella sfera pubblica, copiassero manoscritti, svolgessero il ruolo di imprenditrici, come Dona Gracia Nasi, prestassero denaro, fossero esperte di medicina”.
A dimostrare la tesi enunciata da Busi e Greco, capolavori come la “Sacra famiglia e famiglia del Battista” (1504-1506) di Andrea Mantegna, la “Nascita della Vergine” (1502-1507) di Vittore Carpaccio, la “Disputa di Gesù con i dottori del Tempio” (1519-1525) di Ludovico Mazzolino, “Elia e Eliseo” di Stefano di Giovanni detto “Il Sassetta”. Per non parlare dei manoscritti miniati ebraici, come la “Guida dei perplessi” di Maimonide (1349), acquistato dallo Stato italiano meno di un anno fa. O l’Arca Santa lignea più datata d’Italia, mai rientrata prima da Parigi, e il Rotolo della Torah di Biella, un’antichissima pergamena della Bibbia ebraica, ancora oggi usata nella liturgia sinagogale. Tanto che a luglio – come ha ricordato Disegni – “verrà riportata a Biella per essere letta in occasione del Bar Mitzvah di un ragazzino che ora vive negli Stati Uniti, ma che ha scelto di festeggiare i 13 anni e un giorno nella sua terra di origine”.
Daniela Modonesi