Ferrara ebraica: volti e oggetti di una storia ancora viva
di Andrea Musacci
La tristezza nel non poter ancora aprire al pubblico la “casa” di via Mazzini, 95, ma, dall’altra parte, la gioia di inaugurare una mostra in quella che è ormai, e sempre più, la seconda casa per la comunità ebraica ferrarese, il MEIS. Lo scorso 12 novembre nel Museo di via Piangipane a Ferrara è stata inaugurata la mostra dal titolo “Ferrara ebraica”, aperta in occasione del Premio letterario “Adelina della Pergola” istituito dall’ADEI WIZO (Associazione Donne Ebree d’Italia) e della Conferenza annuale dell’AEJM (l’associazione che riunisce i musei ebraici di tutta Europa), svoltasi proprio nella nostra città dal 17 al 19 novembre.
Per l’occasione, è intervenuto anche il Sindaco Alan Fabbri, ed erano presenti, fra gli ospiti, il presidente della Comunità ebraica di Ferrara Fortunato Arbib, il Rabbino di Ferrara Rav Luciano Meir Caro, il Rabbino capo di Bologna Rav Alberto Sermoneta e il Vicario mons. Massimo Manservigi in rappresentanza della nostra Arcidiocesi. L’esposizione, visitabile fino al 1° marzo 2020, e che segue “Il Rinascimento parla ebraico” (esposta fino al 15 settembre), vede il contributo fondamentale della curatrice del MEIS Sharon Reichel, dell’architetto Giulia Gallerani e del regista Ruggero Gabbai che ha firmato le interviste (a Marcella Ravenna, Rav Luciano caro, Baruch Lampronti, Marcello Sacerdoti, Josè Bonfiglioli, Andrea Pesaro e Alessandro Zarfati Nahmad) e il documentario installati nel percorso espositivo.
La mostra è un omaggio a un pezzo fondamentale della storia della nostra città, a una parte dell’identità di tutti noi che ancora vive e vuole vivere. Le prime notizie di insediamenti ebraici in città si hanno, infatti, a partire dal XII secolo, ma pare che i primi ebrei fossero arrivati attorno all’anno 1000. La maggiore fioritura della comunità risale al Quattrocento, quando le zone di residenza degli ebrei si spostano da via Centoversuri a via dei Sabbioni, oggi via Mazzini, e via San Romano. Nel 1485 il romano Ser Mele acquista l’attuale edificio comunitario di via Mazzini, uno dei più antichi d’Europa ancora in uso. Il suo lascito testamentario alla comunità prevede il divieto di alienazione e la condizione che l’edificio ospiti per sempre un luogo comune riservato al rito. Sorgono infatti in via Mazzini tre sinagoghe, quella italiana, oggi trasformata in sala sociale, quella tedesca e quella fanese.
“Noi siamo molto contenti che vengano ad abitare qua con le loro famiglie…perché sempre saranno benvisti e trattati in tutte le cose che potremo e ogni die più se ne conteranno di essere venuti a Casa nostra”: fu questo l’invito che Ercole I d’Este rivolgeva nel 1492 agli ebrei esuli dalla Spagna. Come non ricordare, poi, il medico e filosofo Isacco Lampronti (1679-1756), ma anche, dall’altra parte, l’isolamento nel ghetto costruito nel 1627 quando Ferrara era sotto lo Stato Pontificio. E poi l’impegno risorgimentale e per l’Unità d’Italia, fino alla promulgazione delle leggi razziali nel 1938, le persecuzioni e le deportazioni, e infine la Liberazione. Il percorso espositivo accoglie i visitatori con un plastico dell’ex ghetto ebraico ferrarese.
Troviamo quindi il Talled (scialle di preghiera) appartenuto al rabbino Leone Leoni, schiaffeggiato dai fascisti il 21 settembre 1941 durante la devastazione da parte delle camicie nere del Tempio farnese e di quello tedesco. E poi, ancora, libri di preghiere, oggetti rituali, l’armado ligneo per conservare la Torah (Aron Ha-Qodesh), candelabri, un corno di montone per il richiamo alla preghiera (shofar del XX secolo), la corona (Atarah), i puntali (rimmonim) per il rotolo sacro, il manto (meil), alcune medaglie, i mantelli che riprendono, in alcune parti, il rosso ferrarese, oltre a testi di Silvano Magrini, storico, autore della storia ebraica ferrarese, nonno di Andrea Pesaro.
Un altro pezzo pregiatissimo è l’enciclopedia talmudica, il cosiddetto “Timore di Isacco”, di Isacco Lampronti. Una sezione è poi dedicata all’Eccidio del Castello (di cui è ricorso il 76esimo anniversario lo scorso 15 novembre) con disegni e tempere di Mario Capuzzo, donati il Giorno della Memoria del 2009 da Sonia Longhi alla Comunità Ebraica per il futuro MEIS. Come ricordò lei stessa nell’occasione, la mattina del 15 novembre 1943 – all’età di 8 anni – mentre andava a scuola si trovò davanti il cadavere di un uomo davanti al muretto del Castello. La notte prima i fascisti erano andati a prelevare il padre, l’avvocato Giuseppe Longhi, che solo per l’intervento di un ministro fascista ebbe salva la vita, ma visse per lunghi mesi con la paura di essere deportato. Anche il pittore Mario Capuzzo la mattina del 15 novembre 1943 passò davanti al muretto e schizzò su un foglio, di straforo, camminando, la scena del massacro. Schizzi che divennero apunto i quattro disegni poi donati da Capuzzo a Longhi. Infine, due buone notizie: all’ingresso del MEIS uno schermo proietta il trailer de “Il giardino dei Finzi-Contini” di Tamar Tal-Anati e Noa Karavan-Cohen, film documentario che uscirà a breve. Seconda notizia, lo scorso 28 ottobre il Ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini ha annunciato: “il lavoro per recuperare i 25 milioni di euro necessari per il completamento del progetto edilizio del Meis è a buon punto. Spero di poter dare l’annuncio in un tempo ragionevolmente breve”. I soldi in questione erano stati bloccati dal primo Governo Conte.
Cesare Finzi e Amedeo “il piculin” Magrini: storia della profumeria più famosa di Ferrara negli anni della Seconda Guerra Mondiale
di Francesca Brancaleoni
All’interno del percorso della mostra ”Ferrara ebraica” inaugurata lo scorso 12 novembre al MEIS, è possibile ammirare anche l’antica insegna della profumeria della famiglia Finzi. Il negozio di via Mazzini era molto noto in città: oltre a profumi, prodotti la cosmesi e per radersi, vendeva anche cancelleria aprendo presto alla mattina affinchè i bambini potessero rifornirsi del necessario prima di andare a scuola.
Amedeo Magrini, classe 1906, era figlio di due ex fornai che avevano cominciato a vendere frutta e verdura in via Mazzini. La famiglia viveva nel ghetto, in piazzetta Lampronti. Aveva solo 13 anni quando iniziò a lavorare nella profumeria di proprietà di Moisè Finzi, padre di Enzo e Renato e nonno di Cesare, presente il 12 novembre all’inaugurazione della mostra al MEIS. Cesare Finzi ci spiega come Amedeo in famiglia fosse chiamato “al piculin”, per via della bassa statura, che non gli permetteva ad esempio di afferrare la saracinesca per chiuderla. Per ironia della sorte, continuarono tutti a chiamarlo così anche quando diventò alto quasi due metri. Durante la guerra, la famiglia Magrini era dovuta sfollare a Quartesana, per cui il piccolo Amedeo doveva recarsi anche due volte al giorno in bicicletta a Ferrara per lavorare. Nella pausa pranzo andava a vedere se la casa di via Salinguerra (dove abitava all’epoca della guerra) fosse stata bombardata.
Gianna Magrini, una delle figlie di Amedeo, ci racconta come, prima di approdare dai Finzi, il padre – a 10 anni – era andato “a bottega” da Arlotti, un antiquario ebreo. Da bambino possedeva uno spiccato senso della giustizia e a causa di ciò fu espulso da tutte le scuole del Regno perché, reagendo ad una ingiusta punizione che gli aveva inflitto la maestra, tenne sotto assedio la scuola lanciando sassi con la fionda verso chiunque si accingesse ad uscire dall’edificio. Nonostante il cognome ebreo, anche durante la guerra – quando a causa delle persecuzioni la famiglia Finzi era dovuta fuggire in Romagna – Amedeo continuò a fare il commesso assieme alla sig.ra Berta (Alberta Bonazzi), moglie di Renato Finzi, donna cattolica che all’epoca gestiva il negozio. Amedeo Magrini ha lavorato per i Finzi fino alla pensione, negli anni Sessanta.